Accoglienza, il dilemma dei religiosi che “non hanno nulla e possiedono tutto”
Molti si sono meravigliati che Papa Francesco, all’Angelus di domenica 6 settembre, abbia suggerito che “Ogni parrocchia, ogni comunità religiosa, ogni monastero, ogni santuario d’Europa ospiti una famiglia, incominciando dalla mia diocesi di Roma”. In realtà ha ripreso un’antichissima tradizione che è già scritta (anno 534) nella Regola benedettina: “Specialmente i poveri e i pellegrini siano accolti con tutto il riguardo e la premura possibile, perché è proprio in loro che si riceve Cristo in modo tutto particolare e, d'altra parte, l'imponenza dei ricchi incute rispetto già di per sé.” (Cap. 53, n. 15)
Ogni fondatore/fondatrice di ordine religioso o di congregazione religiosa suggerisce di essere attento ai poveri, seguendo l’indicazione biblica che “Dio sostiene l’orfano e la vedova” e protegge “lo straniero”, perché - dice il Salmo - “forestiero sono qui sulla terra.” (Salmo 119,9)
La domanda che molti si pongono è perché la Chiesa possieda molti beni, risultando ricca e piuttosto indifferente a concedere accoglienza con generosità.
Tre grandi fenomeni accentuano la volontà del possesso dei beni. Il primo riguarda l’invecchiamento dei religiosi e religiose. Grandi strutture, una volta fiorenti per le attività svolte (scuole, ospizi, ospedali, centri di formazione professionale) sono oramai deserte. Le persone anziane sperano che un giorno quelle strutture possano ritornare utili; da qui la riottosità a metterle a disposizione. Sono occorsi molti secoli e molti sacrifici perché le opere fossero compiute. Purtroppo manca il coraggio di disfarsene, per paura di tradire la causa. Nel frattempo molte comunità vivono con le pensioni dei propri religiosi anziani.
Ma anche volendo disfarsene, chi è in grado oggi di comprare? Non sono molti i religiosi e le religiose dedite in modo esclusivo alla carità. Occuparsi di carità immette in una catena di regole e rapporti con il pubblico che molte organizzazioni religiose non sono più in grado di reggere.
Capitano esempi di cessioni di attività, di commissariamenti, di amministrazioni controllate di opere che erano sorte con grande slancio caritativo. Non resta che cedere beni e attività al “mercato” speculativo, nella speranza che il ricavato possa aiutare altre opere, magari in terra di missione. Cedere alle speculazioni non compensa spesso le buone intenzioni, perché producono molti più guasti del bene che dovrebbero garantire.
La terza via è all’apparenza la più disastrosa e sconsigliabile: immettere nel circuito mercantile conventi, monasteri, scuole, per trasformarli in attività economicamente redditizie (alberghi, case di accoglienza, negozi…) appare all’opinione pubblica un passaggio incomprensibile e oltraggioso. Da qui spesso il giudizio tranciante soprattutto a fronte di emergenze evidenti.
La situazione a Roma è ancor più drammatica. Da quando Sisto V (Papa dal 1585 al 1590) riorganizzò la Curia pontificia accentrandola a Roma, ogni istituto religioso ha una sua casa nella città (casa generalizia, collegio, seminario…): si spiega così l’enorme numero di proprietà immobiliari nella capitale che, all’opinione pubblica restano “scandalose”.
Occorrerebbe decentrare gli uffici della Curia romana nel mondo per alleggerire il carico immobiliare nella capitale.
Papa Francesco ha voluto suggerire un gesto che faccia emergere azioni di vicinanza e, come ama dire, di misericordia, smentendo il detto un po’ sarcastico attribuito ai religiosi: “nihil habentes et omnia possidentes” (non hanno nulla e possiedono tutto).