All'alba centinaia di braccia pronte a lavorare
Rosarno, braccianti immigrati intorno al fuoco
Non riesco nemmeno a distinguere i tratti del viso di Touré. Viene dalla Guinea Conakry. E' arrivato in Italia un anno e mezzo fa. Con un visto turistico che ha lasciato scadere, accumulando nel frattempo due fogli di via. A Roma viveva al dormitorio della Caritas, in via Marsala. Poi ha deciso di scendere verso la Calabria. Aveva sentito dire che qua si lavorava bene. Ma non è così. Stamattina ha appuntamento nel giardino dove ha lavorato ieri. Ci va a piedi per risparmiare i due euro e cinquanta che si prende l'autista. Ma se piove dovrà tornare indietro. Senza paga. L'autista lo chiama "capo nero”. Sono africani che vivono qui stabilmente, o che hanno dei buoni contatti coi padroni dei campi, e che provvedono a fornire la manodopera per la raccolta. Touré è la prima volta che viene a Rosarno. A Conakry studiava economia, all'Università. Ha lasciato gli studi per partire. Aveva provato a chiedere un visto a Stati Uniti e Germania, ma è stato inutile.
Questo giovane guineano mi conferma che non sempre il lavoro è pagato. A lui è successo una settimana fa. A fine giornata non li volevano pagare. Hanno protestato. E il proprietario ha impugnato l'accetta minacciando di ammazzare qualcuno. Allora hanno lasciato perdere. Altri raccontano di essere stati minacciati con pistole e fucili. Ma sono casi rari. Touré vorrebbe mettere dei soldi da parte e andare a Milano, per continuare i suoi studi in economia. Quando ci salutiamo, le prime luci dell'alba mi mostrano finalmente i suoi lineamenti del viso. Lui continua a piedi in una strada sterrata. Mancano ancora due chilometri alla tenuta. Io torno indietro. La rotonda, che prima mi sembrava vuota, è in realtà occupata da una quarantina di africani, seduti sul guardrail e pronti per andare a lavorare. Nascosti sotto cappotti e berretti di lana, indossano tutti stivali verdi di gomma, nei quali portano infilati i pantaloni sporchi di terra e lavoro. Ognuno ha appresso un sacchettino di plastica con il pranzo. Parlano malinke, bambara, wolof. Sono le lingue dei campi rosarnesi di questo inverno.
Ma in verità i braccianti più numerosi sono gli est europei. Ukraini, polacchi, bulgari e rumeni. Vivono in case affittate, in città. Somaticamente non danno nell'occhio. Ma ogni mattina scendono in piazza anche loro, sulla nazionale, in centro, per andare a raccogliere agrumi. Alle otto del mattino ce ne sono almeno 80. Dai due lati della strada. Guardo meglio e riconosco Mohamed, il ragazzo marocchino di Sidi Ma'rouf che avevo conosciuto il giorno prima alla Rognetta. Lo vado a salutare. Accanto a lui c'è anche Tareq e Hicham. I ragazzi di Sidi Ma'ruf che avevo conosciuto ieri alla Fabrica Ancienne. Ci fermiamo a parlare. Ne esce una improbabile discussione sui rosarnesi, Cartesio e la poesia araba. Hicham ha studiato al liceo, a Baida'. Conosce Battuta, Darwish, Qabbani e Mahfuz. Dice che anche lui, nel tempo libero scrive poesie. Poi cambia discorso. Dice che nei campi non hanno problemi, che i problemi sono la notte, con i giovani di Rosarno. “Arrivano in due sugli scooter e si divertono a tirare sassi e bottiglie vuote”, racconta. Ha sentito parlare dei due ivoriani a cui hanno sparato, a dicembre. Per questo non escono quando fa buio. Sorride, la fronte coperta dal cappellino di lana. Ha il viso sbarbato. Ogni tanto si ferma una Panda. Qualcuno sale. Soprattutto i bulgari. Il gruppetto dei marocchini invece è ancora tutto lì. Probabilmente anche oggi non lavoreranno.