20 agosto 2015 ore: 14:30
Economia

Caporalato, le leggi ci sono. “Ecco perché è difficile applicarle”

Parla Alessandro Leogrande, autore di “Uomini e caporali”. Fenomeno sempre più diffuso e dovuto anche al ritorno alla terra di manodopera italiana dequalificata. Per sconfiggerlo, “potenziare gli esperimenti già cominciati e non sminuirlo come hanno fatto associazioni di categoria”
Braccianti stranieri

- MILANO – Il sistema del caporalato è diventato sempre più pervasivo. Dalle terre cotte dal sole del Sud Italia ha espanso i suoi tentacoli fino al Nord. Tanto che nelle zone dei vigneti per il Barolo e per il Moscato, in Piemonte, è partita un'indagine conoscitiva delle condizioni di sfruttamento fatta dalla Commissione agricoltura della Camera, il 2 luglio.

"Esiste una vasta gamma di irregolarità che dall'evasione fiscale dei contributi fino al vero e proprio sfruttamento", spiega Alessandro Leogrande, autore nel 2008 di “Uomini e caporali”, inchiesta che ancora rappresenta una delle migliori fotografie possibili del fenomeno visto in Puglia e riemerso in questi giorni alle cronache dopo la morte di un bracciante sudanese, di uno tunisino e di una italiana. Le leggi per contrastarlo esistono (anche se spesso sono imperfette), ma per le procure è difficile applicarle. E qui sta la grande sfida.

Il ministro dell'Agricoltura Maurizio Martina mostra i muscoli dichiarando che il caporalato va combattuto come la mafia. Lo fa "dopo il quarto morto, di cui due italiani e due stranieri. A testimonianza di come il fenomeno ormai riguardi anche un ritorno alla terra di manodopera dequalificata italiana. Dequalificata per le paghe che ha (circa 3 euro l'ora in nero, di cui una parte poi va al caporale, ndr) e per il modo di svolgere il lavoro", ricorda Leogrande.

Il risveglio improvviso però rischia di concentrarsi solo su un aspetto delle mille facce del caporalato: "Se il paragone con la mafia serve a sottolineare il muro di gomma che circonda il caporalato, allora è corretto. Se richiama al problema di come fare repressione, allora il caporalato non può essere ridotto alla mafia. Non è solo quello", ragiona Leogrande. Il sistema dello sfruttamento lavorativo, infatti, è funzionale. In alcuni contesti, dove ha il monopolio, è l'unico modo per restare sul mercato. Il committente del caporale ha dei vantaggi: riduce il costo del lavoro, dispone di braccianti sottomessi e sotto continua minaccia, accorcia i tempi per reperire manodopera.

Riavvolgiamo il nastro al 2008, ai primi processi per riduzione in schiavitù dei braccianti. È allora che si è iniziato a disegnare il quadro normativo per contrastare il fenomeno. Nel primo processo il braccio destro di uno dei grossi caporali della Puglia comincia a parlare. "Nonostante sia l'antimafia a indagare sui casi di schiavitù, non è contemplato per questo reato il collaboratore di giustizia con tutte le protezioni per la persona previste invece per i processi di mafia o di terrorismo", spiega Leogrande. E così non c'è incentivo a scucire la bocca e denunciare. "Lo stesso vale anche per lo sfruttamento della prostituzione: un 'pentito' riceve solo le attenuanti generiche, nessun premio in più".

L'articolo 18 della Legge Turco-Napolitano sull’immigrazione prevedeva che se vengono "accertate situazioni di violenza o di grave sfruttamento nei confronti di uno straniero, ed emergano concreti pericoli per la sua incolumità, per effetto dei tentativi di sottrarsi ai condizionamenti di un'associazione dedita ad uno dei predetti delitti o delle dichiarazioni rese nel corso delle indagini preliminari o del giudizio" è possibile dare ad un lavoratore straniero sfruttato un permesso di lavoro per motivi di protezione sociale. "Fissa in modo avanzato che cos'è la schiavitù, ma è difficile da applicare – commenta Leogrande -. Lo stesso vale per la legge regionale della Puglia sull'emersione del lavoro nero e sul caporalato". I percorsi migliorativi sono stati minati anche dalle associazioni di categoria "che hanno sminuito il fenomeno del caporalato, dicendo che riguarda poche mele marce", ricorda il giornalista. "Eppure ci sono 10-12 mila lavoratori sfruttati, quanti gli impiegati dell'Ilva: non sarebbero in Puglia se davvero fossero pochi quelli che sfruttano".

Invece che sforzarsi a costruire percorsi nuovi, quindi, andrebbero ripresi quelli già battuti e poi abbandonati per mancanza di convinzione. Come il pulmino gratuito per raccogliere i braccianti da portare nei campi, che così potevano evitare il caporale (esperimento condotto sempre in Puglia), oppure il disincentivo di togliere dai finanziamenti pubblici in Italia e in Europa le aziende che fanno ricorso al caporalato. (lb)

Su RS, l’agenzia di Redattore sociale, leggi la recensione di “Uomini e caporali” QUI e QUI.

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