Dalla Spagna agli aranceti di Rosarno. A Torino mostra su confini e migrazioni
TORINO - Trentacinque gradi e 16 decimi a nord, 2 e 56 ad ovest. Su queste coordinate passa il varco di frontiera tra la città marocchina di Nador e l’enclave spagnola di Melilla. Dove, ogni mattina, migliaia di uomini e donne si accalcano davanti a camion colmi di merci, in attesa che vengano scaricati gli enormi sacchi che dovranno portare in spalla oltre frontiera. Molti di loro sono anziani, infermi o disoccupati, che non hanno altro reddito all’infuori dei pochi spiccioli che ricevono per ogni carico: si affannano senza pace, dall’alba al tramonto, e a volte li si vede accasciarsi a terra, stremati dal tentativo di tenere il passo con i più giovani e forti.
A dare origine al fenomeno dei paseros è stato un accordo commerciale del 1985, che avrebbe dovuto regolare il commercio ambulante nei varchi di frontiera delle enclavi ispano-marocchine di Ceuta e Melilla; ma che ha finito invece per dar vita a un ennesimo giro di sfruttamento sulle sponde del Mediterraneo. Tra il 2013 e il 2014, il fotografo spagnolo Victor Lopez Gonzàlez ha piazzato decine di volte il cavalletto su quelle due linee di confine, per immortalare il brulicare delle schiene ricurve che li attraversavano. Ne è nata una collezione di scatti che fino al 25 aprile rimarranno esposti nell’atrio del campus Luigi Einaudi dell’università di Torino; e che Gonzalez ha voluto intitolare “Atlas”, prendendo a prestito il mito greco di Atlante, che fu costretto da Zeus a tenere sulle spalle il peso dell’intera volta celeste, “proprio come questi uomini - spiega il fotografo - sono costretti a portare il peso dell’economia globale sulle loro”.
“Non credo che il mio lavoro sia assimilabile al reportage - continua Gonzalez - perché il giornalismo ha troppo spesso il limite di fotografare le situazioni in maniera circostanziata, ma avulsa dal loro significato complessivo. Ceuta e Melilla sono snodi di una rete globale che è retta da un’infinità di Atlas. Sono Atlas il bambino che cuce scarpe in Malesia o l’operaio che assembla telefoni in Cina; così come le centinaia di persone che portano in spalla quelle merci oltre le frontiere spagnole”. Quasi sempre, in effetti, i paseros fotografati da Gonzalez sono restituiti allo spettatore in forma decontestualizzata: mai li si vede accalcarsi in masse avvilite e brulicanti, i loro corpi sono ripresi uno per uno e riproposti su uno sfondo nero che li fa apparire mansueti, rassegnati al loro destino.
Un’operazione inversa a quella tentata dalla fotografa tedesca Eva Leitolf, che in “Postcards from Europe” ha immortalato, tra il 2006 e il 2010, i luoghi più significativi nei processi migratori in Europa. Scegliendo quindi di tenere fuori dagli scatti ogni presenza umana, “perché - spiega - ero più interessata a restituire il ‘dopo’, quello che da queste dinamiche viene effettivamente lasciato”. E quindi ci sono i frutti che marciscono negli aranceti di Rosarno, subito dopo le proteste del 2010, “quando un caporale - continua Leitof - mi confidò che anche sfruttare il lavoro dei migranti era diventato inutile, perché l’Unione europea aveva fissato il prezzo a cinque centesimi al chilo, paralizzando il raccolto”. E ancora il villaggio greco di Kastanies, “dove nel 2010 Frontex ha inviato la polizia transfrontaliera per impedire l’accesso ai migranti che attraversano i ponti sul fiume Evros, che segna il confine con la Turchia”. O ancora, le pentole e i segni della presenza umana nell’accampamento di Haramida, sull’isola di Lesbo (Grecia), che nell’estate del 2009 aveva ospitato oltre mille migranti in condizioni che il viceministro per l’Ordine pubblico ebbe a definire “peggiori dell’inferno dantesco.
Esposti nell’ambito della kermesse “Biennale democrazia”, fino al 25 gli scatti di Eva Leitoff faranno il paio con quelli di Victor Lopez Gonzalez al campus Einaudi. Di quest’ultimo verrà proiettato anche un video, Border crossing, una testimonianza di quanto visto tra i varchi di Ceuta e Melilla. Per informazioni: www.biennaledemocrazia.it (ams)