Facchini pakistani e senegalesi: parte da Montopoli (Pi) la pista dello sfruttamento 2.0
TORINO - I facchini li avevano fatti arrivare da Prato e da Milano: decine di pakistani e senegalesi, sistemati in una serie di appartamenti molto vicini al magazzino di un supermercato Conad, in cui avrebbero dovuto lavorare. “Per comodità” gli avevano spiegato i nuovi datori di lavoro, un gruppo di italiani che gestiva una piccola cooperativa a conduzione familiare. Dietro la cui facciata bonaria e rispettabile si celava un'organizzazione criminale con terminali in Asia e Africa; che nel pieno centro di Montopoli, un borgo da diecimila anime nella provincia pisana, aveva avviato un giro di sfruttamento andato avanti per mesi, e scoperto dalla Cgil in seguito a una leggerezza commessa da uno dei "padroncini". È uno dei casi più significativi raccolti a Torino dal Gruppo Abele; che, in una ricerca condotta con 23 realtà italiane, ha cercato di ricostruire un identikit e una mappa geografica di quella che si va delineando come “schiavitù 2.0”. Un fenomeno che, sempre più spesso, trasloca da tenute agricole e raccolte stagionali per muoversi verso il mondo dei servizi, della logistica e, dunque, dei centri urbani.
A ricordare l’episodio di Montopoli è Silvia Callaioli, operatrice della cooperativa sociale Pontedera (Pisa); che si è occupata del caso nel 2010, ben prima che il rogo di Prato scoperchiasse il calderone del caporalato anche nelle province toscane. Come spesso accade nelle storie di sfruttamento, ai facchini era stato offerto una sorta di "pacchetto", che oltre al contratto di lavoro includeva l’alloggio in appartamenti affittati a nome della cooperativa: “A nessuno di loro - ricorda Callaioli - è mai stato comunicato il prezzo dell’affitto: i titolari sono sempre stati molto vaghi in merito, quasi a sottintendere che non gliene importasse poi molto”. In realtà, quelli che sembravano semplici gesti d’attenzione verso i lavoratori si sono poi rivelati ingranaggi fondamentali nel loro sfruttamento: “Vivendo a pochi metri dal magazzino - spiega Callaioli - finivano per essere reperibili 24 ore al giorno, per turni che andavano dalle 10 alle 14 ore giornaliere e con una settimana lavorativa che poteva arrivare anche a sette giorni consecutivi. A tutti i facchini veniva consegnato un radio-auricolare, con gli uomini della cooperativa che, all’altro capo, li esortavano costantemente a lavorare di più e più in fretta. E che, da contratto, pretendevano che caricassero un minimo di 160 colli ogni ora”. L’importo di quell’affitto, inoltre, il cui ammontare era sconosciuto a tutti, veniva regolarmente detratto dalle buste paga; insieme alle utenze, al vitto e a qualsiasi altra spesa venisse in mente ai caporali.
Finché, per un eccesso di ingenuità o più probabilmente di arroganza, dalla cooperativa qualcuno emette una serie di buste paga “a debito”: sulle quali, cioé, detratte le spese, il credito si era trasformato in un disavanzo a carico dei lavoratori. “A quel punto - ricorda Callaioli - alcuni dei facchini, per esasperazione, si rivolsero alla Cgil. Che, dopo una lunga serie di resistenze, anche da parte del supermercato, è riuscita a entrare nel magazzino”. Scoperchiando così una rete di sfruttamento “che in gran parte - precisa l’operatrice - è certamente rimasta sommersa: a uscirne sono stati dodici lavoratori in tutto, ma sappiamo per certo che ce n’erano molti di più”. “La cooperativa - continua - gli faceva firmare dei contratti fasulli, dopodiché prendeva a ricattarli sistematicamente: nessuno di loro aveva i documenti in regola, e ogni volta che provavano a reclamare un salario o condizioni migliori, venivano minacciati di essere rimandati a Milano e fatti espellere dal paese”.
A sentire molte delle testimonianze raccolte dal Gruppo Abele, oltre a un’arma di ricatto i documenti rappresentano un business lucroso, una sorta di indotto parallelo al racket dello sfruttamento. Secondo Callaioli, “è quasi certo che nel Pratese operi una vera e propria centrale per la falsificazione di contratti, permessi di lavoro e di soggiorno, che spesso vengono ceduti in cambio di cifre che possono arrivare a migliaia di euro”. (ams)