Nuove schiavitù: i braccianti indiani, costretti all’oppio per reggere al lavoro
TORINO - Associazioni, cooperative, società di servizi e agenzie di collocamento; fino ad arrivare ad alcune tra le più note aziende e multinazionali presenti in Italia. C’è questo e molto altro nella mappatura delle nuove forme di sfruttamento che il Gruppo Abele ha realizzato interpellando 23 realtà regionali, attive in tutto il paese nel contrasto e nello studio del fenomeno. Le organizzazioni nascenti oggi tendono ad abbandonare i campi per le città; ma se i nuovi caporali avranno probabilmente i colletti bianchi e opereranno nel settore dei servizi, il primato delle moderne schiavitù al momento resta in mano al settore agroalimentare . Secondo l’ultimo rapporto annuale redatto dalla Flai - Cgil, l’anno scorso almeno 400 mila braccianti hanno lavorato in condizioni di grave sfruttamento nei campi italiani: quasi sempre si tratta di stranieri, che spesso non hanno accesso ad acqua corrente e servizi igienici, e finiscono in molti casi per contrarre malattie direttamente riconducibili alle condizioni lavorative cui sono sottoposti.
Ci sono anche loro nello studio realizzato dal Gruppo Abele: che fotografa, ad esempio, la formazione della seconda comunità di braccianti Sikh del paese, quella che dal Punjab Indiano si è progressivamente trasferita verso le campagne dell’Agro pontino (Lazio). Secondo una stima della Cgil, in quella zona, a fronte di 12 mila regolari ce ne sono quasi 20 mila senza documenti: sono concentrati soprattutto nella provincia di Latina, dove vengono impiegati per le raccolte stagionali. Nella scorsa primavera, un report della onlus “In Migrazione” ha documentato come molti di loro abbiano iniziato a ricorrere ad amfetamine e capsule d’oppio per resistere ai turni massacranti imposti dai padroncini che sorvegliano la raccolta delle zucchine: fino a 12 ore di seguito accosciati sulle ginocchia, con la faccia spellata dal caldo e le mani indolenzite dal lavoro incessante.
Chi sono. “Si tratta quasi esclusivamente di lavoratori di sesso maschile - spiega Carmela Morabito della cooperativa Parsec di Roma, una delle realtà interpellate dal Gruppo Abele - che arrivano in aereo, con regolare passaporto e nulla osta al lavoro”. Secondo Morabito, proprio l’emissione dei nulla osta sarebbe al centro di un sistema illegale di intermediazione “con un terminale in India e l’altro in una centrale dello sfruttamento che, a quanto ne sappiamo, si trova proprio in provincia di Latina”. “Il costo di ogni permesso - continua - si aggira tra i 5 e i 15mila euro, che costituiscono il debito iniziale, cui spesso vanno aggiunte le spese di viaggio e di alloggio”. Ancora prima di partire, quindi, i Sikh si trovano spesso a vendere proprietà e capi di bestiame o a indebitarsi con parenti, strozzini o organizzazioni criminali. “E quando arrivano - precisa Morabito - devono pagare di nuovo, per ottenere contratti della durata di due o tre mesi. Al termine dei quali, di solito, avviene il reclutamento vero e proprio da parte dei caporali”.
Così, i braccianti indiani finiscono a dormire in baracche da 30 o 40 persone; per una paga di tre o quattro euro l’ora che, nei casi migliori, arriva con mesi di ritardo. E nei peggiori non arriva affatto. Perché, nel frattempo, le organizzazioni criminali, gestite da italiani che si avvalgono dell’aiuto di caporali reclutati in India, lucrano su tutto: vitto, alloggio, strumenti di lavoro e, naturalmente, documenti. Nelle campagne laziali, secondo Morabito, esiste un vero e proprio tariffario su documenti e certificati di ogni tipo: “Oltre ai permessi di lavoro - spiega - sono le sanatorie a essere più costose. Nella zona di Nettuno, a quanto pare, sono in vendita perfino i certificati che attestano la conoscenza dell’Italiano. Mentre sappiano che a Latina anche un certificato medico arriva a costare tra le 2 e le 300 euro”.
I danni alla salute e le droghe. Ai Sikh i certificati servono spesso per poter continuare a lavorare, dal momento che molti di loro finiscono per avere seri problemi respiratori causati dagli agenti chimici con i quali sono continuamente in contatto. “Molto spesso - precisa Morabito - soffrono anche di problemi alle mani, alle articolazioni o alla schiena, perché i turni e il lavoro che devono affrontare sono disumani”.
A quel punto, di solito, sono gli stessi caporali a chieder loro di produrre un certificato medico; funziona così lo sfruttamento 2.0: come Henry Ford pagava profumatamente i suoi operai perché potessero acquistare le auto assemblate nei suoi stabilimenti, i nuovi sfruttatori lucrano sulle patologie che il loro stesso sistema produce. E in questa infinita spirale sottrattiva, le droghe diventano l’ennesimo segno “meno” nella lista dei debiti accumulati dai nuovi schiavi; che prendono oppio e stimolanti per poter sopportare i dolori provocati da quei turni massacranti. E se nei verbali della polizia di Latina gli arresti per spaccio sono stati quasi tutti a carico dei caporali indiani, dalle storie raccolte nel report di “in Migrazione” si intuisce chiaramente come anche il racket degli stupefacenti sia saldamente in mano italiana. (ams)