Rifugiati, "a rischio un ottimo sistema di accoglienza": cosa succede in Uganda
Foto Oxfam
BOLOGNA - Un sistema di accoglienza che dà dignità ai rifugiati (e agli immigrati economici) attraverso il lavoro e l’integrazione sociale. È quello attivato da una decina di anni in Uganda. A livello popolare è chiamato “Welcome to Uganda” e ha funzionato molto bene con i rifugiati provenienti dal Congo, tanto che sono molti quelli che non sono più voluti tornare indietro. Il grande afflusso di rifugiati degli ultimi 12 mesi, in particolare dal Sud Sudan, rischia però di farlo saltare. “Gli arrivi di rifugiati sud sudanesi sono iniziati nel 2015, in concomitanza con l’inizio della guerra civile nel Paese – spiega Fabrizio Monti, volontario di Cvm (Comunità volontari per il mondo) – Sono rimasti costanti anche nel 2016 ma erano ben gestiti. Nei primi 6 mesi del 2017 l’afflusso è diventato incontrollato”. Il motivo? “Il conflitto in Sud Sudan si è diffuso e da guerra civile sta andando nella direzione di una guerra tra le due etnie principali, Dinka e Nuer – continua Monti, che lavora da 20 anni in Africa e vive in Uganda con la famiglia – e la gente scappa dalle violenze perpetrate da entrambe le parti”.
- L’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati (Unhcr) parla di 1.800 arrivi in media al giorno negli ultimi 12 mesi, soprattutto di donne e minori, per un totale di rifugiati sud sudanesi che supera il milione di presenze. A questi poi si aggiungono anche i rifugiati di Burundi, Repubblica democratica del Congo e Repubblica Centrafricana, portando l’Uganda al terzo posto mondiale per numero di rifugiati accolti. “I dati sono provvisori ma il governo intende creare, insieme all’Unhcr, un sistema di registrazione chiamato ‘Refugee information management system, che sarà attivo probabilmente da settembre – spiega Monti – Inoltre, è stata attivata una task force con il ministero della Sanità per monitorare lo stato di salute dei rifugiati e dare loro assistenza sanitaria e supporto psicologico, ed è stato coinvolto l’esercito per evitare infiltrazioni di guerriglieri”.
Niente campi profughi a lungo termine, frontiere aperte, intgrazione socioeconomica dei rifugiati. Ecco come funziona il sistema di accoglienza in Uganda: dopo 2 o 3 mesi in un campo profughi provvisorio, ai rifugiati viene offerta la possibilità di ottenere un appezzamento di terreno con attrezzature di base e sementi, oltre a materiale per costruire un’abitazione tradizionale (capanne di fango con servizi igienici all’esterno), “per iniziare un’attività di sostentamento” oppure si dà loro la possibilità di trovare un lavoro. Inoltre, i rifugiati hanno piena libertà di movimento nel Paese, dal quale possono anche uscire e rientrare grazie a una carta dotata di microchip, realizzata in collaborazione con l’Unchr, e godono di diritti civili. “Non possono occuparsi di politica attiva pro o contro il governo del loro Paese né di politica attiva in Uganda e non possono toccare i business protetti, come il traffico dell’oro dal Congo, gestito dall’esercito ugandese”. Si tratta di un programma a medio termine che funziona molto bene e che punta all’integrazione sociale dei rifugiati. “Ma i rifugiati sud sudanesi hanno bisogno immediato di cibo, coperte e medicine – spiega Monti – Ecco perché servono gli aiuti internazionali di emergenza: obiettivo del governo ugandese è, infatti, quello di ottenere sostegno dalla comunità internazionale e poi in 2 o 3 mesi riattivare il programma di accoglienza”.
Il sistema di accoglienza ugandese passa anche attraverso precise leggi sui media, “non si possono fare titoli che incitano all’odio etnico né assimilare gli immigrati a fattori negativi – afferma Monti – Ricordiamoci che il 30% della popolazione è immigrata, in particolare da Eritrea ed Etiopia, e il governo è molto attento da questo punto di vista”. A una politica all’avanguardia sull’immigrazione però si contrappone una politica estera “brutale” per il controllo delle risorse: “Il governo ugandese ha un grande peso militare e politico nell’Africa orientale e le manovre per il controllo delle risorse minerarie, come il petrolio del Sud Sudan o l’oro del Congo, sono causa di conflitti che lo rendono corresponsabile dei drammi che vive l’area”, conclude. (lp)