Se il made in Italy è fatto da lavoratori stranieri: sono 3,4 milioni
- ROMA – Nel mondo del lavoro italiano ci sono sempre più lavoratori immigrati: sono, infatti, 3 milioni e 400mila i lavoratori occupati nati all’estero, in prevalenza cittadini stranieri e in misura ridotta italiani rimpatriati. In tutto, dunque, gli immigrati rappresentano il 16,6 per cento degli occupati, il 24,9 per cento dei contratti che vengono a cessare, il 25,4 per cento su quelli stipulati nel corso dell’anno e ben il 31,8 per cento sui contratti di quanti vengono assunti per la prima volta. Lo dicono i dati elaborati dal centro studi e ricerche Idos, per “Voci di confine” di Amref. “L’iniziativa – spiega Renata Torrente di Amref, responsabile del progetto – intende portare in luce, attraverso attività di comunicazione e sensibilizzazione in tutta Italia, questa visione della migrazione, visione fondata su dati ed esperienze concrete. Il 26 ottobre, nel giorno in cui in tutte le regioni d’Italia verrà presentato il Dossier Statistico Immigrazione 2017, curato dai Centri Studio IDOS e Confronti, verrà anche lanciato il sito dedicato al progetto, che pubblicherà numerose schede tematiche sul fenomeno migratorio”.
Un sistema produttivo fortemente internazionalizzato: migranti sempre più necessari ma in posti precari. Secondo i dati, il sistema occupazionale italiano è fortemente internazionalizzato in considerazione dell’origine estera di un sesto degli occupati e di un terzo dei nuovi assunti, nel 2016. Anche se questi lavoratori sono per lo più inseriti nei posti di lavoro meno appetibili perché più precari, come attestato dall’elevata ricorrenza delle cessazioni contrattuali. La necessità di una forza lavoro supplementare colmata dai migranti, che nel futuro aumenterà, attualmente è già fortissima anche perché molti giovani italiani preferiscono recarsi all’estero per trovare un’occupazione più soddisfacente e sono invece ridotti i rimpatri degli italiani emigrati (37.894 nel 2016, sette volte di meno rispetto a una stima realistica degli espatriati).
Ad assumere il 73,4 per cento dei lavoratori nati all’estero, occupati nel 2016, sono le microimprese (fino a 9 addetti), una caratteristica prettamente italiana nello scenario europeo. Secondo i ricercatori ciò rafforza la convinzione che serva un adeguato supporto istituzionale non solo nel mondo imprenditoriale ma anche in ambito sociale. Per quanto riguarda la distribuzione territoriale, ad esempio, l’incidenza dei nati all’estero tra tutti i lavoratori occupati supera di molto la media nazionale (16,6 per cento) nel Trentino Alto Adige (23,7 per cento), mentre riporta valori tra il 17 per cento e il 19 per cento in altre 3 regioni (Friuli Venezia Giulia, Toscana e Veneto). Di contro, nelle regioni meridionali l’incidenza sia abbassa al 10 per cento o a quote inferiori, fatta eccezione per l’Abruzzo e il Molise. Tra le grandi regioni, la Lombardia sta nella media (16,5%) e il Lazio leggermente al di sotto (14,6%).A imporsi per numero di occupati nati all’estero sono le grandi province: Milano 317.000, Roma 272.000, Torino 110.000, Brescia 84.000 e, cui seguono: con 70.000 occupati Firenze, Bologna e Verona; con 60.000 Bolzano, Napoli e Bergamo; con 50.000 Treviso, Modena, Venezia, Padova, Vicenza e Prato; con 40.000 Genova e Reggio Emilia.
Un “made in Italy” fatto stranieri. “La realtà migratoria, pur considerata da molti estranea (non una voce di confine ma oltre confine), sta diventando sempre più intrinseca al mondo del lavoro italiano, come attesta l’incidenza dei lavoratori nati all’estero. Fa una certa impressione pensare che si siano inseriti nel nostro sistema produttivo 697.000 lavoratori nati in Romania, 257.000 in Albania, 213.000 in Marocco, 175.000 in Cina, 154.000 in Ucraina, 114.000 in Moldavia, 101.000 nelle Filippine – si legge nel rapporto di Idos -. Seppure in misura diversa, ciò vale per l’intero contesto nazionale, dal Trentino Alto Adige alla Sardegna. Il made in Italy risulta fortemente “internazionalizzato”, non solo perché esporta i suoi prodotti in tutto il mondo, ma anche perché è nato all’estero un sesto di coloro che lavorano per produrli (aspetto invece spesso sottaciuto): non vi è solo la globalizzazione dell’export da prendere in considerazione ma anche quella dei flussi migratori, i cui protagonisti tra l’altro si sono inseriti nei posti di lavoro meno appetibili perché più precari, come attestato dall’elevata ricorrenza delle cessazioni nei loro rapporti di lavoro”. (ec)