SanPa e quel modello repressivo del consumatore "colpevole" (che domina ancora oggi)
di Riccardo De Facci
Il dibattito che è nato intorno all’accurata docu-serie che racconta la storia di San Patrignano al grande pubblico su Netflix, ci sembra che ben rappresenti l’incapacità politica e dell’opinione pubblica di trattare in maniera approfondita e seria il tema ormai quarantennale dell’uso, consumo problematico e dipendenza da sostanze psicoattive da parte di un ampio numero di persone, soprattutto giovani. Un tema difficile e complesso, estremamente cangiante per sostanze e problemi nel corso degli anni, in un rapporto continuo con i cambiamenti sociali avvenuti, che oggi si presenta con storie e volti molto diversi da quelli raccontati nella docu-serie di Netflix e che non è possibile capire se non inserito nel clima in cui è nato e si è sviluppato, come tutti i fenomeni sociali. Pensiamo solo alle circa 150 nuove sostanze psicoattive immesse nel mercato soprattutto via dark web ogni anno negli ultimi cinque anni, e la loro assoluta distanza dal modello di consumo e dipendenza dall’eroina.
Negli anni Ottanta, di fronte alla diffusione piuttosto veloce dell’eroina - una tragedia segnata da circa 250mila tossicodipendenti, di cui un 50-60% sieropositivi e malati di Aids, e da circa 1500-2.000 morti l’anno per overdose - una società spaventata e incapace di dare risposte politiche e sociali efficaci finì per dare un mandato senza limiti, quasi onnipotente, alle nascenti comunità, che sperimentavano - dopo le esperienze di superamento dei manicomi negli anni Sessanta/Settanta - servizi diffusi territoriali per curare la dipendenza da sostanze. Non c’era solo Muccioli, come si potrebbe credere vedendo la serie di Netflix, ma anche leggendo le cronache di quegli anni. Muccioli, però, si presentò da subito come l’unico vero salvatore dalla “droga”, osannato e mitizzato anche da molti politici di allora, in cerca della facile e tranquillizzante soluzione e della “certa” risposta di sicurezza e controllo a fronte delle difficili domandi sociali ed educative che il tema eroina poneva.Non solo Muccioli, negli anni nacquero almeno 200 realtà
Nacquero in quegli anni e si svilupparono almeno 200, secondo alcune stime, realtà di accoglienza, molte aderenti al CNCA. Un CNCA che si formò come coordinamento nazionale proprio nel confronto serrato sui problemi che il tema droghe poneva, sulle analisi condivise, sulla formazione, sullo scambio di sperimentazioni e approcci volontaristici e ideali, ma sempre più competenti e integrati con professionalità diverse (sociologici, psicologi, educatori, psichiatri, ecc.) a partire dall’esperienza delle realtà già radicate - come il Gruppo Abele di don Ciotti, San Benedetto al porto di don Gallo e la Comunità di Capodarco. Contemporaneamente in Italia si sviluppavano altre realtà importanti, soprattutto per mano di sacerdoti e laici impegnati come don Picchi con il Ceis, don Mazzi con Exodus, Rostagno e Saman, Villa Maraini a Roma.
C’erano, verso la fine degli anni Ottanta, oltre 300 realtà che accoglievano tossicodipendenti (ora sono almeno 500 gli enti, con circa 800 servizi), e tutte usavano e usano metodi molto diversi da quelli del fondatore di San Patrignano. Piccole strutture diffuse (15, 20, massimo 30 posti), basate sulla scelta individuale alla cura, sull’ascolto individuale, l’aiuto disinteressato, l’educazione attiva e la responsabilità individuale, la condivisione comunitaria di fatiche e progressi, il supporto alle famiglie di provenienza, le campagne di prevenzione sui territori, i centri di ascolto, l’accompagnamento al reinserimento sociale di chi riusciva e sceglieva di scrivere nuove pagine della propria vita anche fuori dal mondo comunità. Una posizione in antitesi anche filosofica, educativa al manifesto di San Patrignano e di poche altre realtà affiliate che non negavano il contenimento e la coercizione anche violenta, la sospensione dei diritti minimi della persona, addirittura ratificati da discutibili sentenze della magistratura a fronte di morti, incatenamenti, violenze di vario tipo.
Quegli anni sono cruciali anche per le visioni attuali, perché è allora che si costruisce il discorso sulla “droga”, in un confronto che diventa spesso scontro. Discussioni e agiti che ripropongono il dibattitto sui diritti inalienabili anche delle persone fragili e vulnerabili accolte e la possibilità o impossibilità - in nome del bene dell’altro - di agire violenze, soprusi, limitazioni della libertà – l’impostazione classica delle istituzioni totali - e quella visione ideologica dominante ancora oggi nel mondo politico e dei media, anche in alcune aree “progressiste”. Si afferma allora un approccio, che ispirerà anche la legislazione, che non sembra interessato a comprendere il significato e le domande sottese all’uso delle diverse sostanze psicoattive, a prendersi carico della singolarità delle storie delle persone, ad accompagnarle nella loro fragilità in un nuovo progetto di vita che – esse sole – possono decidere. Tutto viene azzerato per esaltare una visione che vede il consumatore di droghe come una persona colpevole verso sé stessa e la società, unica responsabile del proprio vizio e incapace di progettare la propria vita, a cui deve essere imposta – con ogni mezzo – la salvezza dalla droga e da sé stessa.Il consumatore come "colpevole" e le sanzioni penali
È nella costruzione di questa visione che Muccioli è stato fondamentale, rappresentando con la propria esperienza la realizzazione perfetta del paradigma. Una struttura nata probabilmente con scopi ideali di aiuto si è man mano trasformata in una istituzione totale senza regole e limiti espliciti nel raggiungere i propri fini: in campo educativo anche con la legittimazione della violenza come sistema; in campo economico con la continua capitalizzazione del lavoro gratuito degli ospiti, mai riconosciuto alle persone; con le influenza politiche e i vantaggi economici enormi che hanno ispirato una delle leggi sulle droghe più punitive e ambigue d’Europa; e nell’approccio ideologico per cui sostanze, rischi, criticità, problemi dovuti a consumi e sostanze profondamente diverse si appiattiscono in uno sterile dibattito tra liberalizzazione totale versus punizione totale come priorità di approccio.
È evidente che, impostato così il discorso sulla “droga” (rigorosamente al singolare), il passaggio conseguente non poteva che essere la sanzione penale, come avvenne con la legge Jervolino-Vassalli del 1990. Punire il “drogato” anche con il carcere come mezzo necessario, e giusto, per salvarlo e reintegrarlo in una comunità che ha dovuto per forza di cose escluderlo, rinchiudendolo in un luogo separato prima di tutto dal punto di vista simbolico, in cui per qualcuno (la magistratura lo sancirà in sentenze) addirittura non vigevano più nemmeno i diritti individuali.
Oggi, ci troviamo ancora allo stesso snodo. Decine di migliaia di persone hanno affollato e affollano le carceri per reati connessi alle droghe, senza essere veri spacciatori o padrini del narcotraffico, e innumerevoli sono state segnalate alle prefetture (più di un milione). Si punisce con la legge il semplice consumo, anche quando non comporta danni a terzi. Quel discorso, nato sulla tragedia della diffusione dell’eroina, viene ancora utilizzato per ogni droga e ogni diverso consumo di essa, senza mai distinguere tra sperimentazione, uso, abuso e dipendenza da sostanze.
La priorità resta, dunque, quella di smascherare la natura puramente ideologica del discorso dominante sulle droghe, che non è affatto “necessario”: esistevano ed esistono diversi modi per vivere e affrontare l’uso di sostanze, che rimandano ad altre letture psicologiche e sociali e che non fanno leva sulla criminalizzazione e la coercizione. Non dobbiamo smettere di ricordare che dietro le sostanze ci sono le storie delle persone, tutte delicatissime e meritevoli di attenzione e cura. Prima di pensare di risolvere e “salvare qualcuno”, occorre aver voglia di evidenziare e capire i problemi con cui si presentano nelle nostre strutture, alle nostre unità mobili, nei nostri drop in, occorre assumerne lo sguardo, accoglierne le domande. Senza accontentarsi di ricorrere semplicisticamente a termini logori come “colpa”, “sballo”, “tossico” per spiegare fenomeni molto complessi, che chiamano in causa un tessuto sociale smagliato che non è più in grado di accompagnare i più giovani nel loro percorso di crescita, e nemmeno di capirli. (Lo vediamo anche nel tempo della pandemia, dove i ragazzi sono sempre additati come irresponsabili dediti alla “movida”, ancora una volta “colpevoli”).
Se guardiamo a chi usa sostanze come a una persona che pone a sé stessa e a noi tutti delle domande di senso, è evidente che dobbiamo riformare in modo radicale la legislazione vigente, prevedendo - in ogni caso - la depenalizzazione del consumo di sostanze, la costruzione di strutturali e continuative campagne e servizi di prevenzione, occasioni di presa in carico precoce, percorsi seri di reinserimento sociale. Una persona in difficoltà per i suoi consumi e dipendenze deve incontrare il prima possibile una figura educativa, di supporto psicologico, una relazione di aiuto, non un carceriere, nemmeno se travestito da operatore sociale. Non c’è niente da punire nel consumo di sostanze e la coercizione non è assolutamente necessaria, perciò il carcere e la sanzione penale non sono il mezzo adatto, e giusto, per affrontare la questione droghe.Decostruire il modello colpevolizzante e repressivo
Decostruire il modello dominante – colpevolizzante e repressivo – dovrebbe portare a un nuovo e assai più ampio investimento sociale e politico sulla questione sostanze psicoattive, in cui comprendere anche l’alcool. È inconcepibile che, da dodici anni, il governo non convochi una Conferenza nazionale sulle droghe che, per legge, dovrebbe tenersi ogni tre anni. Ci pare il segno evidente del disinteresse e/o incapacità che la politica di ogni schieramento riserva alla diffusione delle sostanze, che resta al massimo oggetto di qualche dichiarazione interessata solo al consenso, normalmente di segno reazionario.
Sui territori, occorre implementare luoghi e momenti che aiutino i ragazzi nella loro crescita, specie i più fragili. Da tempo chiediamo un Piano nazionale sulla prevenzione che dovrebbe unire le azioni di servizi sociali, servizi sanitari, scuole e famiglie, gli operatori di strada, della presa in carico precoce, del supporto psicologico, ove necessario.
Le comunità e, più in generale, i servizi e gli interventi per le dipendenze da soli non possono affrontare un fenomeno così complesso. Molto lavoro è stato fatto, ad esempio creando una moltitudine di servizi a bassa soglia capaci di essere presenti nei luoghi in cui le persone consumano sostanze (vedi le unità di strada nei luoghi del divertimento giovanile o nelle piazze di spaccio come il parco di Rogoredo o i drop in per le situazioni più cronicizzate della marginalità urbana). Ma questo non basta. Dobbiamo capire cosa sta accadendo, decidere dove intervenire, quanto e come finanziare gli interventi, che ruolo dare alla scuola come soggetto formativo, di prevenzione e di responsabilizzazione peer to peer, che rapporto intrecciare con le famiglie.
Se usciamo dal modello vittima/colpevole/salvatore – semplificante e, in fondo, rassicurante perché nasconde tutto quello che chiama in causa noi stessi –, si apre un lavoro enorme da fare. Noi ci siamo.
*Riccardo De Facci è il presidente del Coordinamento Nazionale Comunità di Accoglienza (CNCA)