Pensieri e ricordi di uno scrittore nel perenne confronto con se stesso
Quello che importa è lo sguardo, la prospettiva da cui si osserva la realtà. Sembra voler ribadire a ogni rigo questa convinzione Andre Dubus (1936-1999) nella raccolta di 25 saggi intitolata “Riflessioni da una sedia a rotelle”, appena tradotta in italiano per i tipi di Mattioli1885. Quasi alla fine della sua vita – negli Stati Uniti il libro è uscito nel ’98, l’anno precedente alla morte per attacco cardiaco –, lo scrittore annota ricordi autobiografici e soprattutto rilegge episodi del suo passato consapevole della sua disabilità: a 49 anni fu investito da un’auto e subì l’amputazione della gamba destra, perdendo poi l’uso della sinistra. Il secondo capitolo s’intitola proprio “Gambe” e inizia così: "Questo accadde molto tempo fa, o almeno mi sembra che sia molto tempo fa. All’epoca avevo due gambe forti. E conoscevo una ragazza che non amava le sue cosce. Era convinta che fossero troppo grosse. Il suo corpo era minuto ed era una donna atletica, e non facevo che ripeterle che non poteva perdere peso solamente sulle cosce. Aveva 19 anni e correva più di tre chilometri ogni giorno. Io ne avevo 41 e ogni tanto andavo a correre con lei". È come se lui si osservasse dall’esterno e ringraziasse per avere arti inferiori forti, mentre prima non li accettava, comprendendo il suo errore di fronte al disagio della ragazza nei confronti del proprio fisico. E lo scrive quando ormai le gambe non può usarle più, quasi a lanciare un messaggio implicito ai lettori: godetevi quello che avete, non fermatevi alle apparenze, non sprecate tempo prezioso a criticarvi. Parole che assumono ancora più spessore perché scritte da chi non ha accolto subito la disabilità acquisita, anzi ha attraversato la disperazione prima di comprendere come trovare e provare gioia nelle pieghe della quotidianità e dell’anima, grazie anche alla fede cattolica.
Nel libro Dubus ripercorre pure le notti in cui sognava "di camminare su due gambe per poi risvegliarmi ogni mattina invalido, con le preghiere e la volontà di scendere dal letto per affrontare la giornata, e dover imparare un nuovo modo di vivere dopo aver vissuto quasi 50 anni con un corpo intero". Ma questa attitudine ad affondare le mani nelle emozioni profonde, dalla sofferenza alla gioia, Dubus la palesa fin da bambino, come racconta in un altro capitolo, definendo se stesso come "un ragazzo sensibile, che veniva ferito e si spaventava facilmente". E ancora: "La mia immaginazione mi faceva vivere una doppia vita: esistevo nel mio corpo e allo stesso tempo vivevo anche un’altra esistenza, che nessuno poteva vedere. Da quando sono nato, non ho mai smesso di raccontarmi storie e di parlare nella mia mente con gli amici". Una vena immaginifica che si nutre ovviamente di letture, da Hemingway a Mailer. Amico e allievo di Richard Yates e Kurt Vonnegut, celebrato da Stephen King, John Irving, John Updike, Dubus è stato anche docente di scrittura, saggista, biografo e sceneggiatore. Nel nostro Paese è stato scoperto con qualche decennio di ritardo: dal 2009 viene tradotto da Mattioli1885. E scoprirlo è una piacevole sorpresa.
(La recensione è tratta dal numero di SuperAbile INAIL di aprile, il mensile dell’Inail sui temi della disabilità)