Le due dottoresse che rendono “umano” il pronto soccorso
Qualche volta la necessità di andare al di là della retorica mi si fa urgente. Retorica da terzo settore, da buona cooperazione, da lavoro di rete.
In tali casi, può bastare scostarsi un po’ dalla propria routine, e soprattutto dedicare del tempo all’ascolto vero, concentrato, senza tecnologia tra i piedi. E allora ti può capitare d’incontrare Rosaria e Marina, al secolo dottoresse, e il loro progetto “sperimentale“ all’ospedale Bassini di Cinisello Balsamo: “Famiglie e adolescenti in ospedale”. Due parole possono bastare per descrivere il loro lavoro: passione e intelligenza. Perché è proprio con passione e intelligenza che hanno costruito un servizio unico nel suo genere, dedicato ai ragazzi tra i 12 ai 22 anni che ripetutamente accedono al Pronto soccorso con somatizzazioni (cefalee, dolori addominali…), ansia e attacchi di panico, disturbi del comportamento alimentare o condotte autolesive (abuso occasionale di alcool o droghe, scarificazioni, ripetuti incidenti, ripetute interruzioni di gravidanza, tentativi di suicidio).
Mi raccontano dei tanti ragazzi che incontrano (negli ultimi due anni e mezzo sono stati più di 400, in buona parte femmine), della proposta che viene loro fatta di prendersi un momento di pausa attraverso un ricovero, del dialogo con le famiglie per dare un significato agli accessi al Pronto soccorso e per trovare risposte, non solo e non sempre di tipo sanitario, ai problemi che spesso stanno sotto tali condotte sintomatiche.
Mi colpisce molto il lungo e paziente lavoro sul piano culturale con tutti gli attori che si muovono sulla scena ospedaliera, a partire dagli operatori sanitari del Pronto soccorso. Un impegno formativo di lunga lena che ha progressivamente portato a un cambio profondo della cultura dell’intervento: in Pronto soccorso, prima del progetto, ci si limitava a rispondere al bisogno di cura del corpo, senza porsi ulteriori domande. Spesso si finiva per colludere con la banalizzazione dell’evento (“è una ragazzata, a chi non è capitato a quell’età?”) che quasi sempre è la prima reazione delle famiglie di fronte all’incidente di percorso. Andare al di là della pronta prestazione sanitaria, affrontare i significati che spesso sottostanno all’episodio di emergenza, articolare una risposta integrata tra corpo e dimensione emotiva, è stata una conquista progressiva ma determinante.
E poi c’è il lavoro per integrare e far lavorare assieme persone ed enti che spesso tendono a percorrere strade autonome e non dialoganti, riuscendo a generare un notevole livello d’integrazione. Da un lato vi è una significativa multidisciplinarietà dell’equipe coinvolta: medici – pediatri e non -, psicoterapeuti, psicologi, educatori, mediatori culturali. Ma dall’altra l’integrazione si allarga alle diverse componenti della struttura ospedaliera: pronto soccorso, pediatria, psichiatria, neuropsichiatria, ginecologia. Infine il progetto si muove in sinergia e in rete con le differenti risorse presenti sul territorio, a partire dal coinvolgimento dei quattro Comuni di Ambito, dell’Asl, degli oratori, dell’assistenza educativa domiciliare.
L’integrazione e il lavoro di rete tra ospedale e risorse del territorio è probabilmente ciò che fa di questo progetto un unicum, almeno sul piano degli interventi dedicati ai giovani e agli adolescenti. Un punto di forza e un antidoto anche alla patologizzazione e medicalizzazione dei problemi che è, con tutta evidenza, uno dei principali rischi che potrebbe correre il progetto stesso.
Mi è piaciuto molto stare ad ascoltare Rosaria e Marina. Due esempi di resilienza, che dopo tredici anni di “sperimentazione” – con scadenze a tempo e la conseguente precarietà - non si sono ancora stancate di darci dentro.
Producendo risultati concreti e tangibili. Senza retorica.