Dal Senegal a Forlì: Cheikh e il sogno di diventare arbitro
Al centro Cheikh Ndiaye
BOLOGNA – È arrivato a Lampedusa nel 2014, dopo più di 3 anni di viaggio. Cheikh Ndiaye, 22 anni, è partito dal Senegal. Non parla volentieri della sua esperienza, ma si illumina quando si parla di calcio e, da qualche mese, ha un nuovo sogno: diventare arbitro professionista. Un sogno che ha preso corpo anche grazie al corso organizzato dalla sezione di Forlì di Aics nell’ambito del progetto “Cultura dell’accoglienza e comunità inclusive. Il progetto, realizzato da Aics insieme con Cittadinanzattiva e Fictus, nasce per promuovere la coesione sociale dei richiedenti asilo anche grazie al coinvolgimento degli studenti italiani.
Un lavoro nel mondo del calcio
“Ho sempre amato il calcio – racconta Cheikh che ha da poco ottenuto un permesso di soggiorno – e sapevo che esistevano gli arbitri. Credevo però che fosse un mestiere semplice e che il loro compito fosse solo fischiare i rigori”. Invece, grazie al percorso formativo tenuto dall’arbitro Franco Sirotti, Cheikh e altri 7 giovani tra i 16 e i 25 anni hanno scoperto che le regole sono più complesse, ma anche che l’arbitraggio potrebbe essere molto più di un passatempo. “Grazie al mister ho scoperto qual è la dimensione del campo, l’altezza dalla porta, la distanza del dischetto per tirare i rigori. Il calcio ha sempre fatto parte della mia vita, in Senegal giocavo e mi divertivo, oggi lo vedo anche come un possibile lavoro”. Gli 8 direttori di gara, infatti, hanno ottenuto una certificazione che permette loro di arbitrare nei tornei e nelle manifestazioni coordinate dall’Aics.
Lo sport per socializzare
Da poco Cheikh ha trovato lavoro in un ristorante di Cervia, ma spera di continuare ad arbitrare: “È divertente, mi appassiona e spero di poter finalmente vivere una vita normale”. L’arbitraggio si è presto trasformato anche in un’occasione per i partecipanti di socializzare, come racconta Yacine Gaye Diallo, coordinatrice del progetto per Aics Forlì: “Si è instaurato un rapporto speciale sia con il mister – molti dei ragazzi mi hanno detto che non hanno mai avuto un rapporto così diretto con un italiano – sia tra loro. Spesso si trovano a giocare e, naturalmente, c’è sempre chi fa l’arbitro anche al campetto”.
L’italiano imparato sul campo
Le lezioni per diventare direttori di gara si sono rivelate utili anche per l’apprendimento dell’italiano. “È stato necessario – aggiunge la referente – imparare parole che appartengono al lessico calcistico che, molto spesso, già conoscevano nella loro lingua. È stato più semplice memorizzare tutto perché avveniva direttamente sul campo, unendo il gioco con la prospettiva di utilizzare questa terminologia in ambito lavorativo”. La strada per il professionismo è lunga, tuttavia i promotori sono fiduciosi: sarà Aics stessa a coinvolgere, nel corso dei prossimi mesi, i neo arbitri di Forlì in diverse iniziative sul territorio. “Ci spero – ammette Cheikh – sarebbe davvero un sogno trasformato in realtà”.Il progetto in Italia
Sono 21, in tutto, le province italiane che, grazie alla rete che Aics vanta sul territorio, hanno aderito al progetto per l’inclusione sociale dei giovani richiedenti asilo. Oltre 400 i giovani stranieri e altrettanti gli studenti italiani coinvolti, per un totale di 43 laboratori diversi, tra quelli di promozione sportiva e quelli culturali. Così, se a Forlì i giovani richiedenti asilo si sono confrontati con l’arbitraggio, a Savona il corso di musica rap ha dato vita al singolo Amore, mentre il corso di storia partenopea a Napoli ha convinto più di un giovane straniero a completare il proprio percorso di studi in italiano. Come N., 23 anni, in fuga dal Mali. Lui, ospite del programma nell’ostello di Mergellina, ha appena ottenuto la licenza di terza media con un tema letto perfino di fronte al sindaco Luigi De Magistris: è una lettera rivolta al ministro dell’Interno nella quale racconta la disperazione che spinge a lasciare la propria terra e i propri cari. N. è uno dei 70 giovani stranieri che, a Napoli, è rientrato nel programma per le “Comunità inclusive” dell’Associazione italiana cultura sport: in attesa dell’asilo ha fatto il badante, il lavapiatti e oggi lavora per un catering. Dal Mali è arrivato a piedi in Libia, dove si è pagato il “viaggio della morte” – come lo definisce lui, nella sua lettera – con sei mesi di lavori forzati.