2 marzo 2014 ore: 10:48
Economia

L'Housing first sbarca in Italia. Aiuto ai senza dimora senza passare per i dormitori

Il modello di intervento prevede l'ingresso immediato in case e appartamenti. Nato in America alla fine degli anni 80, il progetto è stato adottato in molti paesi del nord Europa. Ma in Italia, l'ostacolo è la mancanza di un reddito di cittadinanza, necessario alla sostenibilità economica delle strutture. Ecco le prime esperienze
AUGUSTO CASASOLI / CONTRASTO Senza dimora: donna dorme su una panchina

Foto di AUGUSTO CASASOLI

TORINO- Se è vero che in cinese la parola "crisi" nasce dall'incontro degli ideogrammi "pericolo" e "opportunità", anche il mondo occidentale sembra stia imparando la lezione piuttosto in fretta. Dopo il disastro finanziario del 2008, la recessione ha costretto governi e associazionismo a snellire e ripensare i modelli di welfare in senso meno assistenzialista ed economicamente più sostenibile. Quello che in pochi si aspettavano, però, è che in questo modo alcuni servizi potessero diventare addirittura più efficienti. 
Uno degli esempi più recenti arriva dal Portogallo e prende il nome di Casas primeiro: un progetto nato cinque anni fa per venire incontro ai senzatetto dI Lisbona, mutuando il modello americano dell'Housing first; che prevede un notevole alleggerimento dei costi attraverso l'eliminazione del classico percorso "a scalini", composto da accoglienza, permanenza in strutture a bassa soglia (come dormitori o social housing) ed, eventualmente, reinserimento in una normale abitazione. 

Come si evince dal nome stesso (che in italiano può esser tradotto come "Casa prima di tutto"), nell'Housing first quest'ultimo passo rappresenta invece l'inizio e la finalità del percorso stesso, che parte con un immediato inserimento dell'utente in appartamento e mira alla progressiva riconquista dell'autonomia personale e dei legami sociali. A sentire Juan Ornelas, fondatore di Casas Primeiro, che a Lisbona segue attualmente 50 senzatetto, i risultati sarebbero ottimi: "Nell'arco di sei mesi, un anno al massimo - spiega Ornelas - l'80 per cento dei nostri utenti taglia ogni legame con la strada; e il numero dei ricoveri in reparti psichiatrici o dei trattamenti per l'alcoldipendenza crolla. Ma soprattutto, tutti i partecipanti sentono di essere padroni delle loro scelte, perché sono loro a pagare l'affitto, utilizzando parte del sussidio o, una volta ripreso a lavorare, del proprio stipendio".

BOX Ed è proprio l'assenza di un reddito di cittadinanza ,al momento, il principale ostacolo per poter adottare anche in Italia questo sistema. Da tempo, la Federazione italiana organismi per le persone senza dimora (FioPsd) sta studiando un sistema che permetta di implementarlo anche da noi; l'idea è quella di costruire un network tra i vari servizi già esistenti, il privato sociale e la pubblica amministrazione, che vada orientandosi progressivamente sul nuovo modello. E a vedere alcune recenti esperienze, nate proprio con la supervisione della Federazione, anche in questo caso i risultati sembrano quantomeno incoraggianti. 

A Bergamo, il progetto Rolling Stones ha permesso al welfare lombardo di risparmiare dai 50 ai 100 euro al giorno per ogni utente. "Il programma -'spiega il responsabile Stefano Galliani, presidente FioPsd - è rivolto a cinquanta utenti dei servizi per le dipendenze, che si trovano senza fissa dimora e si sono mostrati refrattari ad interventi quali l'inserimento in comunità di recupero. A gruppi di tre, sono stati collocati in una serie di alloggi popolari, il che ha comportato un risparmio enorme in termini economici: per rendersene conto, basta considerare che l' inserimento di un utente in una comunità di recupero per alcolisti o tossicodipendenti viene a costare rispettivamente 125 e 85 euro al giorno; mentre il costo dell'affitto di questi appartamenti è di 25 euro al giorno cadauno".

Oltre che dalla sanità regionale, che sovvenziona il programma come vincitore del bando per i progetti sperimentali della regione Lombardia, i fondi arrivano da alcune fondazioni, dal privato sociale e anche dal contributo di quegli stessi utenti che hanno già trovato un lavoro: "Un primo esempio - continua Galliani - di quella rete tra servizi, privato e associazionismo che vorremmo si creasse per poter implementare il nuovo modello di housing". Proprio come prevede l'housing first, la presenza degli operatori nella vita degli utenti è ridotta al minimo indispensabile: "si limitano ad andarli a visitare per qualche ora ogni giorno - precisa Galliani - con un approccio non esattamente orientato verso la relazione utente - operatore: mangiano insieme, li aiutano a sbrigare dei lavori in casa o li accompagnano a fare la spesa". 

Quello che invece il progetto prevede è che gli operatori affianchino gli utenti in una serie di iniziative tese al miglioramento della qualità della vita nei rispettivi complessi residenziali; i quali, come spiega Galliani, "presentano spesso un alto livello di problematicità a causa di quel divario culturale e anagrafico che si crea, ad esempio, quando le strutture di edilizia popolare finiscono per essere abitate soltanto da coppie di italiani molto anziani da una parte, e da giovani gruppi di immigrati con i loro figli dall'altra". "È capitato, ad esempio, - continua Galliani - che gli utenti si occupassero di organizzare feste in cortile, cucinando e gestendo i rinfreschi. Tutto questo non serve solo a inserirli meglio nei contesti in cui vivono ; ma dà una forte spinta per ricreare una rete sociale in ambienti in cui la comunicazione è ridotta al minimo e le tensioni si fanno a volte esplosive". Il progetto Rolling Stones prevede infatti che gli utenti impieghino almeno dieci ore settimanali in iniziative di questo tipo. Iniziative che, secondo Galliani, "restituiscono loro quel livello di fiducia necessario per poter ricostruire dei legami affettivi con la società". Come già fatto da Casas Primiero, i progressi dei partecipanti vengono misurati attraverso interviste cicliche condotte separatamente su utenti ed operatori, tese a valutare una serie di indicatori come l'igiene personale e della casa o la relazione tra coinquilini. "Ed è interessante notare - conclude Galliani - come nel tempo lo scollamento tra le valutazioni degli uni e degli altri si vada riducendo, fino a scomparire del tutto".

Un'altra esperienza promettente è partita a Bologna, dove la Onlus "Amici di Piazza grande", che dal 1993 si occupa di senza fissa dimora, ha appena inserito quattro dei suoi 161 utenti in un progetto abitativo modellato sui principi dell'housing first. "Si tratta - spiega Alessandro Tortelli, responsabile del progetto - di persone che soffrono un grave disagio psichico, che sono state collocate in due monolocali e in una struttura di cohousing. Per definire il progetto ci siamo ispirati al principio della deistituzionalizzazione già utilizzato da Franco Basaglia: il nostro obiettivo è portare via gli utenti dai dormitori e dalle strutture a bassa soglia, restituendo loro autonomia e potere sulle proprie scelte. Per questo motivo, anche i restanti 157 utenti compiono un percorso molto simile: vengono inseriti in appartamenti in condivisione, senza che vengano posti loro vincoli all'ingresso né scadenze di alcun tipo durante il percorso. L'unica differenza è che, non avendo abbastanza fondi a disposizione, non possiamo lasciargli scegliere dove abitare. Per il momento, abbiamo a disposizione 37 appartamenti, quindi gli utenti devono necessariamente coabitare: ma il percorso che proponiamo è comunque orientato al recupero dell'autonomia e della libertà di scelta".

Più recente è il lavoro iniziato dalla Caritas di Agrigento, che appena una settimana fa ha inaugurato una struttura composta da sette mini appartamenti con spazi comuni per cucinare e per le attività ricreative. "A oggi - spiega il direttore Valerio Landri - sono stati inseriti tre utenti, accomunati da una situazione di grave marginalità economica e di disagio abitativo. Che arrivano, comunque, da situazioni molto diverse tra loro: solo uno dei tre, un padre separato, rientra ad esempio nella categoria della povertà emergente". Per quanto riguarda il sostegno economico, quanti abbiano un lavoro (un utente su tre, al momento) versano un contributo in denaro, mentre gli altri lavorano per alcune ore settimanali alla manutenzione e al miglioramento della struttura.

Proprio a Torino, invece, partirà a breve un altro programma ispirato a questa nuova modalità di Housing: a metterlo in piedi è stata la onlus Progetto tenda, fondata dalla vicepresidente FioPsd Cristina Avono, che da anni si occupa di immigrati e rifugiati. I primi beneficiari saranno due donne somale con i loro figli, e due giovani provenienti rispettivamente da Afghanistan e Somalia . Oltre all'ingresso in appartamento, i quattro potranno far riferimento a una rete di operatori, psicologi e counselor, che li assisteranno in percorsi di inserimento sociale e lavorativo. (ams)

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