5 novembre 2015 ore: 14:16
Ambiente

La sfida dell’industria alimentare: trasformare i rifiuti in nuovi prodotti

Rifiuti, sottoprodotti alimentari e cibo sprecato hanno un impatto in termini ambientali ed economici. Perché dunque non creare valore dalla loro gestione? L’idea di reimmetterli nella filiera per creare nuovi prodotti arriva da Ecomondo, di cui è in corso a Rimini la diciannovesima edizione
Ecomondo
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RIMINI – Creare valore dalla gestione dei rifiuti e dei sottoprodotti alimentari è la nuova sfida per il settore agroalimentare europeo, un comparto che conta 310 mila imprese (in maggioranza, piccole e medie), mille miliardi di euro di fatturato (di cui 134 in Italia) e 4 milioni di addetti. Se ne è parlato a Ecomondo, la manifestazione sulle tecnologie green di cui è in corso a Rimini la diciannovesima edizione, durante il convegno “Verso una catena alimentare a zero rifiuti: tecnologie abilitanti per la sostenibilità dell’industria agroalimentare e la gestione dei rifiuti in una prospettiva di economia circolare”, promosso da Università di Bologna, Confagricoltua, Atia-Iswa Italia, Cluster tecnologico nazionale Agro-food Consorzio italiano compostatori e Comitato tecnico scientifico di Ecomondo. Obiettivo? La riconversione mirata a ridurre ogni forma di spreco, a cominciare da quello delle materie prime, lungo l’intera filiera. “È il percorso nobile lungo il quale è doveroso incamminarsi”, ha detto Fabio Fava, Coordinatore del comitato scientifico di Ecomondo e Referente per la bioeconomica nei committes H2020. 

Si stima infatti che il 40 per cento dei rifiuti sia prodotto nella fase successiva alla raccolta, in particolar modo durante la lavorazione. Sprechi che poi si ripercuotono sui consumi, dove le cifre inducono a condividere un obiettivo come la riduzione entro il 2020 del 50 per cento degli attuali volumi di cibo commestibile sprecato. La Fao ha anche stimato le fasi dello spreco: il 32% (510 milioni di tonnellate) durante la produzione agricola, il 22% (355 milioni di tonnellate) nelle fasi immediatamente successive alla raccolta, l’11% (180 milioni di tonnellate) durante la trasformazione industriale, il 13% (200 milioni di tonnellate) durante la distribuzione. Il 22% è lo spreco del consumatore, a livello domestico e nella ristorazione. 

Un altro fronte degli sprechi è quello ambientale: secondo il rapporto “Food wastage footprint. Impacts on natural resources” della Fao nel 2013 l’impronta di carbonio del cibo prodotto ma non mangiato, e quindi sprecato ogni anno, viene stimato in 3,3 miliardi di tonnellate di CO2. Il consumo di acqua collegato allo spreco alimentare è di circa 250 km cubici, come il flusso annuale del Volga, tre volte il volume delle acque del Lago di Garda. Il cibo prodotto e sprecato, poi, occupa quasi 1,4 miliardi di ettari di terra, costituendo il 30 per cento della superficie occupata da terre agricole a livello mondiale. Il diretto costo economico dello spreco alimentare dei prodotti agricoli (escluso il pescato) viene valutato sui 750 miliardi di dollari, cifra equivalente al Pil della Svizzera. 

La sfida dunque è quella di reimmettere nella filiera gran parte di quello che oggi viene scartato come rifiuto, trasformandolo in nuovi prodotti del circuito alimentare, come ad esempio i mangimi, o in materiali destinati al percorso della cosiddetta chimica verde, come nel caso delle bioraffinerie. “C’è molto da fare per raggiungere gli obiettivi di sostenibilità della filiera e della valorizzazione dei rifiuti – ha detto Fava durante il convegno – ma il cammino, anche in Italia, dove operano circa 55 mila aziende per lo più di piccole dimensioni (solo lo 12% ha più di 9 addetti), è avviato”. La conferma è arrivata dal responsabile di Confagricoltura, Ezio Veggia, che ha sottolineato “la necessità di creare reti di impresa per la condivisione, ad esempio, di tecnologia”. Non mancano poi le esperienze innvoative come il progetto di “agricoltura di precisione” che in Umbria si avvale di droni e sistemi geosatellitari per la riduzione degli sprechi. (lp)

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