8 marzo: quando il lavoro diventa "nemico" delle donne
ROMA - Secondo il Global gender gap report 2012, lo studio sulla disuguaglianza di genere a livello mondiale elaborato annualmente dal World economic forum, “l’Italia si colloca all’80° posto nella classifica planetaria della parità donna-uomo. C’è ancora una forte rigidità nell’associare i ruoli sociali al genere di appartenenza. E questo solitamente penalizza le donne, anche quelle disabili”.
La situazione di sudditanza della donna è palese in molti settori della vita quotidiana, con particolare riferimento al mondo del lavoro. Ecco, in occasione della Festa della donna, una rapida carrellata della situazione italiana ed europea delle maggiori disuguaglianze, dei problemi e dei soprusi di cui le donne sono ancora vittime.
Lavoro. Secondo i dati sul divario retributivo di genere resi noti dalla Commissione Europea il 28 febbraio, Giornata europea per la parità retributiva, le donne continuano a lavorare 59 giorni a salario zero.
In alcuni paesi, come l’Italia, l'Ungheria, il Portogallo, l'Estonia, la Bulgaria, l'Irlanda e la Spagna, il divario retributivo tra i sessi è aumentato negli ultimi anni. La tendenza al ribasso può dipendere da alcuni fattori, come l'aumento della percentuale di lavoratrici con un più elevato livello di istruzione e l'impatto della recessione economica, che è stato più forte in alcuni settori a prevalente manodopera maschile (edilizia, ingegneria). Questo significa che il lieve livellamento non è imputabile esclusivamente ad aumenti della retribuzione femminile o a un miglioramento delle condizioni di lavoro delle donne.
Non solo, secondo il rapporto “Noi Italia” dell’Istat, nel 2012 risultano occupate sei persone su 10 in età 20-64 anni, con un forte squilibrio di genere a sfavore delle donne. Il 13,8 per cento dei dipendenti ha un contratto a termine, valore sostanzialmente analogo alla media europea. La quota di occupati a tempo parziale è pari al 17,1 per cento. Entrambe le tipologie contrattuali sono più diffuse tra le donne. Il tasso di inattività è al 36,3 per cento. Pur segnando una riduzione significativa rispetto al 2011, si conferma tra i più elevati d'Europa. L'inattività femminile rimane molto ampia (46,5 per cento), nonostante la forte contrazione rispetto al passato. La disoccupazione di lunga durata (che perdura cioè da oltre 12 mesi) interessa il 52,5 per cento dei disoccupati e supera il 54 per cento per la componente femminile.
Infortuni e malattie professionali. In Italia, secondo uno studio dell’Anmil, circa 250 mila lavoratrici sono colpite ogni anno da infortunio o malattia professionale: 2 mila i casi che conducono a una condizione di disabilità. Con ripercussioni psicologiche: il 42,5% delle donne del campione soffre ancora di ansia/angoscia o incubi conseguenti all’infortunio: si rileva una tendenza maggiore per le donne sotto i 50 anni (59%) che decresce al salire dell’età, ad indicare un maggior livello di superamento del disagio man mano che il ricordo dell’infortunio si allontana nel tempo. A causa del persistente disagio psichico successivo all’incidente, il 16,5% del campione considera necessario il supporto psicologico.
Interessante i confronto con il dato rilevato tra i maschi infortunati, che solo nell’8% dei casi dichiarano la necessità di un aiuto esterno. Gli uomini percepiscono invece più delle donne (13% contro 5,5%) una perdita di autorevolezza in famiglia. Per quanto riguarda in particolare il rapporto con il compagno, questo si è interrotto dopo l’infortunio per il 23% delle donne intervistate, mentre la maggior parte di queste ha conservato la relazione. Il maggior numero di rotture di registra al nord ovest (29%, contro 15% al sud) e con i livelli più alti di disabilità: quando l’infortunio riceve un punteggio di gravità superiore a 66, solo 1 uomo su 4 resta vicino alla compagna.
Rinunce. Carichi familiari troppo gravosi, mancato riconoscimento delle competenze, poche possibilità di fare carriera. Per le donne quello lavorativo è ancora un percorso tutto in salita. Lo dice il report “Stereotipi, rinunce e discriminazioni di genere” presentato il 9 dicembre scorso dall’Istat. Secondo il rapporto, sono oltre 14 milioni, pari al 32,2 per cento della popolazione, gli italiani che nel corso della loro vita, a causa di impegni e responsabilità familiari o semplicemente perché i propri familiari così volevano, hanno rinunciato a lavorare, oppure hanno dovuto interrompere un percorso lavorativo, non hanno potuto accettare un incarico lavorativo o, ancora, non hanno potuto investire come avrebbero voluto nella propria professione. Una rinuncia che però è tutta al femminile: quasi la metà delle donne (44 per cento) si è trovata a dover rinunciare a un’opportunità o ad adottare comportamenti autolimitanti per ragioni familiari. Mentre gli uomini che hanno dovuto scegliere questa via sono solo il 19,9 per cento.
Pensione. Le donne vanno in pensione leggermente più tardi degli uomini a causa di una carriera lavorativa mediamente irregolare, mentre la lunghezza media delle carriere è più alta. Sono alcuni dei dati rilevati dall'Istat a fine 2013. Inoltre, ci sono 541 mila individui tra 50 e 69 anni che hanno dichiarato di non aver versato alcun tipo di contributo previdenziale. Le incidenze più elevate si registrano per le donne e nelle regioni meridionali.
Le carriere continuano a essere mediamente più lunghe per la componente maschile (37,6 anni contro 33,9 anni delle donne). Si allungano le carriere contributive: rispetto al 2006 il numero medio di anni di contributi versati sale da 34 a 35,4 anni. I periodi di contribuzione sono mediamente inferiori per le donne e per i pensionati del Mezzogiorno. (daiac)