1 settembre 2015 ore: 13:44
Economia

“A mio fratello proibirei di partire”. Le voci dei braccianti su Radio Ghetto

Dai microfoni della trasmissione “Radio Ghetto Africa”, all’interno della grande baraccopoli di Rignano Garganico, i giovani africani impegnati nella raccolta di pomodoro nella zona di Foggia si rivolgono, una volta la settimana, a chi li ascolta dai paesi d’origine
Isabella Bazzi Caporalto. Radio ghetto. Mano su tastiera mixer

Foto - Isabella Bazzi

RIGNANO GARGANICO (Foggia) - “Vivo come in esilio, straniero nella vostra città. Sono un africano a Parigi”. È la voce del cantante ivoriano Tiken Jah Fakoly, in una cover francese di “Englishman in New York” di Sting. Parla di migrazione, lavoro duro, attesa dei documenti. Scrive alla mamma di non preoccuparsi per le notizie dall’Europa. Non è l’inferno, dice, e nemmeno il paradiso. Va in dissolvenza la canzone, a Radio Ghetto, l’emittente che trasmette dal Gran ghetto di Foggia, dimora di quasi 2.500 braccianti africani impegnati durante i mesi estivi nella raccolta del pomodoro nella zona della Capitanata.

La postazione di "radio ghetto"
Caporalato. Radio ghetto. postazione

E ricominciano le voci dei ragazzi che stanno registrando, come ogni settimana, la puntata in francese di “Radio Ghetto Africa”. La radio, che da quattro anni dà voce ai braccianti della più grande baraccopoli pugliese, per il 2015 si è arricchita di una trasmissione settimanale pubblicata sul web e poi mandata in onda da otto emittenti dell’Africa occidentale, dal Marocco al Burkina Faso, dal Benin al Mali e al Senegal. Sono i braccianti a scegliere gli argomenti, pensando a temi che possano interessare il pubblico africano. E al centro del dibattito tornano quasi sempre la durezza del viaggio della vita in Europa.

“Non mi sarei mai aspettato che in Europa potesse esistere un posto come questo”, afferma Touré al microfono della radio. “Senza elettricità, senza acqua, rifiuti dappertutto e condizioni di lavoro quasi insostenibili”. Descrive il Gran Ghetto di Foggia, e ricorda: “Nessuno ti dice davvero come stanno le cose, quando ti parla di questo luogo. E lo stesso accade con chi è già emigrato in Europa: quando tornano in Africa, ostentano ricchezza e non raccontano la verità”. Lui, ora, darebbe consigli ben diversi: “Se potessi, proibirei a mio fratello di partire. Il fatto è che se racconti a qualcuno come stanno veramente le cose, non ti crede. Pensa che noi sconsigliamo di lasciare l’Africa perché siamo egoisti”.

Non sempre, partire è una scelta. “C’è un misto di motivazioni personali e politiche”, spiega Rodrigue. “Io ho lasciato la Costa d’Avorio a causa della guerra, dell’avvenire precario, dell’insicurezza, della distruzione morale e della mancanza di infrastrutture. Non è stato un viaggio che ho preparato a lungo. Una mattina mi sono svegliato e dopo poche ore ero per strada. Partire in fretta, e con il minimo indispensabile, significa correre molti rischi. E patire anche la fame durante la strada”. Rodrigue si è ammalato ed è rimasto per giorni all’ospedale in Mali, senza denaro per poter pagare il ricovero. Akhet invece si è trovato nove giorni nel deserto, costretto a bere acqua “che aveva uno strano colore, filtrandola con il tessuto della mia maglietta”.

“Sono pentito di essere qui in Europa”, riprende Touré, che quando non lavora nella raccolta dei pomodori vive in Sicilia, nel gigantesco Cara di Mineo, in provincia di Catania. “Pensavo di trovare una vita bella, invece da un anno e otto mesi sto in un centro di accoglienza, in attesa di essere ascoltato dalla commissione che dovrebbe darmi i documenti. Materialmente non mi manca nulla, ho il cibo e l’assistenza medica, ma sono isolato. Posso dire di avere un solo amico italiano, per il resto non ho avuto l’occasione di conoscere nessuno. E non posso fare altro che attendere”.

La mancanza di documenti spinge molti al lavoro nero nell’agricoltura. “Ma a quel punto – ribadisce il giovane al microfono – avremmo fatto meglio a restare in Africa. Avevamo poco, ma era una base su cui costruire qualcosa”.

Alpha prende il microfono per rimarcare le condizioni di lavoro: “Sto vivendo qui da due mesi, ci alziamo prestissimo, guadagniamo poco, siamo pagati in ritardo. Per dieci giorni sono stato malato, e se non vai al lavoro si trova qualcuno che lo fa al posto tuo. Resterò qui solo fino a quando avrò una risposta sul permesso di soggiorno, poi cercherò di andarmene”. La trasmissione in francese diventa l’occasione di mandare un segnale alternativo. “Il mio consiglio è di non partire, ma ognuno deve cercare la propria fortuna, essere libero di scegliere”, riprende Touré a microfoni spenti. “E nei nostri viaggi avventurosi e terribili abbiamo sofferto – fa eco un altro ragazzo – ma anche imparato tanto”. (Giulia Bondi)

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