''Di fronte a tutto questo dolore''. Nella sessione di domani in anteprima nazionale il film ''The Spectre of Hope'' di Maria Nadotti
Pochi dati anagrafici e una foto: ciò che ci individua sui documenti di identità. E poi un’informazione più privata, che ribalta in ritratto e autoritratto l’oggettività fredda della schedatura burocratica. E il documento si anima e si trasforma in microstoria individuale, in racconto di sé.
Comincia così, sul primo piano di due passaporti e su una voce fuori campo – quella di John Berger, sceneggiatore e co-interprete del film, The Spectre of Hope, dialogo/confronto tra due dei più acuti e appassionati osservatori del mondo contemporaneo. A fare da filo conduttore al loro ragionamento sono le immagini realizzate tra il 1993 e il 1999 da Salgado, vale a dire quella parte del suo corpus fotografico che ha dato vita alla mostra e al libro Migrazioni e che è dedicata agli esodi, ai transiti, ai movimenti forzati e tragici di intere masse umane sulla superficie terrestre del ferocissimo secolo che ci siamo appena lasciati alle spalle.
La conversazione, che nel film è ripresa a colori, si svolge a casa di John Berger, in un piccolo villaggio delle Alpi francesi, attorno al tavolo di cucina. Fuori è primavera inoltrata, l’erba è alta, l’aria luminosa e sulla staccionata che delimita il prato un gatto è seduto al sole. Nella penombra della casa i due interlocutori hanno cominciato a parlarsi. Davanti a loro c’è il libro fotografico di Salgado. John lo sfoglia lentamente. Dopo qualche minuto – il montaggio è del sudafricano Paul Carlin, che del film è anche regista – la cinepresa si stacca dai loro volti e va a immergersi nel bianco e nero di una fotografia, che invade lo schermo e lo divora. Siamo in Rwanda. A terra, attorniato da decine di attoniti testimoni, c’è il corpo di un uomo. È morto di colera, una malattia che si potrebbe curare e che invece stermina uomini giovani e forti, a migliaia. “In questo campo”, commenta con voce spezzata Salgado, “a volte ho visto morire anche diecimila persone al giorno. Ed è difficile veder morire diecimila persone. È molto, molto duro. Diecimila persone in buona salute. Non stavano morendo di fame, morivano perché non avevamo alcun modo di salvarli”.
Il nostro sguardo, provocato dai movimenti di camera, percorre il piano dell’immagine, lo attraversa, vi affonda, se ne ritrae, indugia. Filmare la fotografia è praticare l’arte della vertigine, e così noi ci troviamo a seguire l’occhio del regista che segue l’occhio del fotografo che inquadra, scatta, sceglie. Ma a monte di quest’ultimo sguardo c’è quasi sempre, per Salgado, una reciprocità: il fotografo, come dice limpidamente egli stesso, restituisce lo sguardo e nel farlo non può che riconoscere l’individualità di chi gli sta di fronte e con essa interagire. Fotografare è dare corpo all’esistenza dell’altro, dargli modo di dire “io esisto”, uno e diverso da tutti i suoi moltissimi pari. Le dimensioni della tragedia – centodieci milioni di contadini, ci ricorda Salgado, sono costretti ogni anno a lasciare le aree rurali, semplicemente per sopravvivere – porterebbero a cancellare la storia degli individui e con essa i loro corpi, la loro irripetibile unicità. E invece è proprio in quel capovolgimento dello sguardo, che si gioca la relazione tra chi fotografa e chi è fotografato. “I bambini sanno”, suggerisce Berger, “che guardando Salgado, cioè il suo obiettivo, stanno guardando il mondo. E il loro