"E tu slegalo subito": Basaglia e quel comportamento davanti a un uomo legato
ROMA - Di contenzione e abbandono si può anche morire. È successo a Franco Mastrogiovanni, deceduto il 4 agosto 2009 dopo essere stato lasciato per quattro giorni legato a un letto d’ospedale. Il 15 novembre 2016 la Corte d’appello di Salerno ha condannato sei medici e undici infermieri dell’Spdc di Vallo della Lucania per la sua morte, con pene che vanno dai 13 mesi ai due anni. Le sue ultime 87 ore di vita sono state riprese dalle telecamere a circuito chiuso del reparto. Sua nipote, Grazia Serra, ha voluto rivederle tutte: “Quando arriva in reparto (in seguito a un trattamento sanitario obbligatorio, ndr) – riassume – lo si vede camminare tranquillo per il corridoio. Più tardi si addormenta e lo legano al letto. Il suo stato di agitazione inizia quando si sveglia e si ritrova contenuto”. La contenzione meccanica, cioè l’atto di legare al letto una persona con delle fasce, non è né permessa né vietata dal nostro ordinamento. C’è di fatto un vuoto legislativo.
Il tutto viene spiegato nell’inchiesta pubblicata sul numero di marzo della rivista SuperAbile Inail, che rappresenta una sintesi del progetto "Matti per sempre", finalista della sesta edizione 2017 del Premio di giornalismo investigativo Roberto Morrione. Il progetto è stato curato da Maria Gabriella Lanza e Daniela Sala.
Secondo gli ultimi dati disponibili, che risalgono alla ricerca Progres Acuti, finanziata dal ministero della Salute nel 2004, la contenzione riguarda un paziente su dieci. Ma se è vero che la maggior parte degli Spdc la pratica, questo succede con una grande variabilità: si va da reparti che la applicano tre volte all’anno, ad altri che contengono due pazienti al giorno. Le ragioni sarebbero da ricercare, secondo il rapporto Contenere la contenzione meccanica dell’associazione A buon diritto, nella “cultura di reparto e nelle dinamiche relazionali tra i diversi attori sociali coinvolti”. La disponibilità di tempo, insieme all’umanità del personale, risultano in questo senso “due deterrenti importanti rispetto al ricorso alla contenzione e alla stessa creazione dello stato di crisi acuta che ne costituisce la giustificazione formale”.
Si tratta comunque di stime, perché nonostante esista un registro per il monitoraggio delle contenzioni in ogni Spdc, i dati non sono raccolti né a livello regionale né tantomeno a livello nazionale. Per giustificare la pratica della contenzione meccanica si fa ricorso al cosiddetto “stato di necessità”, disciplinato dall’articolo 54 del codice penale: non è punibile chi ha legato una persona “per esservi stato costretto dalla necessità di salvare sé o altri dal pericolo attuale di un danno grave”.
Ma un altro dato preoccupante riguarda la durata delle contenzioni: difficile infatti capire come lo “stato di necessità” possa protrarsi per più giorni e notti consecutivi. Come si legge in una testimonianza riporta nel dossier di A buon diritto, “la pratica della contenzione fisica oltre le 48 ore può essere frequente in reparto a causa del sovraffollamento”: sovraffollamento che sarebbe, a sua volta, sanzionabile.
Eppure 40 anni fa Franco Basaglia aveva chiaro come ci si dovesse comportare davanti a un uomo legato: “E tu slegalo subito”, diceva. Da questa affermazione ha preso il nome la campagna nazionale lanciata a gennaio 2016 dal Forum salute mentale. Tre mesi dopo sono iniziate le audizioni in commissione Diritti umani al Senato, presieduta da Luigi Manconi, sul ricorso alla contenzione nei reparti sanitari, mentre a marzo del 2017 è stata proposta l’istituzione di una commissione parlamentare d’inchiesta sul fenomeno. “Siamo abituati a pensare che un paziente sottoposto a Tso sia una persona un po’ diversa, che dà i numeri. Ma quello che è successo a mio zio mi ha insegnato che un momento di fragilità può capitare a tutti”, commenta Grazia Serra, che ritiene necessaria una “rivoluzione culturale: non credo sia giusto avere paura di un reparto psichiatrico. Dobbiamo batterci perché anche a una persona ricoverata in un Spdc vengano riconosciuti gli stessi diritti degli altri pazienti”.
La legge 180/78 in sintesi. La cosiddetta “legge Basaglia” (dal nome dello psichiatra che l’ha ispirata), quella che di fatto ha chiuso i manicomi in Italia, poi confluita nelle legge istitutiva del Servizio sanitario nazionale, stabilisce alcuni principi cardine: 1) gli accertamenti e i trattamenti sanitari sono volontari. Tuttavia l’autorità sanitaria locale può disporre brevi trattamenti sanitari obbligatori (Tso), ma nel rispetto della dignità della persona e dei diritti civili e politici garantiti dalla Costituzione, compreso il diritto alla libera scelta del medico e del luogo di cura; 2) solo se esistono alterazioni psichiche tali da richiedere interventi terapeutici urgenti, si può disporre che le cure vengano prestate in condizioni di degenza ospedaliera, nelle strutture pubbliche o convenzionate, ma occorrono la proposta motivata del medico, il benestare del sindaco e la notifica al giudice tutelare. Chi è sottoposto a Tso, e chiunque vi abbia interesse, può fare ricorso al tribunale. La competenza in materia è trasferita alle Regioni e alle Province autonome di Trento e Bolzano; 3) gli interventi di diagnosi, prevenzione, cura e riabilitazione della malattia mentale, quindi, sono attuati di norma dai servizi psichiatrici territoriali extra ospedalieri ed è vietato costruire nuovi ospedali psichiatrici.