"Fermate le morti in mare ora": l’appello del Comitato 3 ottobre
ROMA – “L’Europa non può continuare a contare le vittime stando a guardare. Queste non sono stragi inevitabili. Chiediamo l’avvio urgente di attività di ricerca e di soccorso in mare su ampia scala e l’apertura di vie legali per garantire un accesso sicuro all'Europa a chi fugge da conflitti e persecuzioni. Per evitare che un viaggio di speranza si trasformi in un viaggio di morte”: la lettera che il Comitato 3 ottobre (organizzazione no profit nata dopo la tragedia dell’ottobre 2013 a Lampedusa in cui morirono 368 persone) farà avere alla Commissione Europea che si riunirà giovedì 23 aprile in un vertice straordinario si conclude così.
Un appello per fermare le morti in mare, ora: “Chiediamo la messa in atto di una solida operazione congiunta – racconta Tareke Brhane, presidente del Comitato –: un’operazione a lungo termine, non a singhiozzo con nomi e mezzi sempre diversi. Chiediamo un’alternativa per tutte le persone che si mettono in viaggio verso l’Europa, per le quali l’unico passaporto spendibile sono i trafficanti”. Il Comitato chiede protezione per i migranti nei Paesi di transito e supporto in quelli limitrofi agli Stati da cui fugge (Turchia, Giordania, Libano, per esempio). Chiede l’introduzione di un visto umanitario per un ingresso legale in Europa: “Vogliamo mettere pressione per evitare tragedie simili e per smettere di spendere moltissimi soldi senza vedere nessun risultato”. La petizione è stata lanciata su Change.org e in meno di 24 ore ha già raccolto oltre 50 mila firme, tra Italia, Spagna, Inghilterra e Francia.
“Complessivamente nel corso del 2014 circa 219 mila persone hanno attraversato il Mediterraneo e ben 3.500 migranti vi hanno perso la vita. Tutti i cittadini possono fare la propria parte, perché tutti hanno una responsabilità alla quale rispondere”.
- “La prima cosa che penso quando apprendo di un nuovo naufragio è che ho avuto la fortuna di vivere un’altra vita. Allo stesso tempo mi assale una profonda tristezza nel vedere queste persone che continuano a morire per cercare di mettersi in salvo”: Tareke è arrivato in Italia nel 2005, in fuga dal suo Paese, l’Eritrea. “Avevo 17 anni quando sono partito: frequentavo il Liceo Scientifico. Vivevo solo con mia madre, mio padre era morto in guerra. Sono fuggito per evitare la coscrizione a vita: io avrei voluto servire il mio Paese, ma non a quelle condizioni. Per circolare al suo interno, c’era sempre bisogno di un permesso, ti facevano sentire straniero a casa tua. Non esisteva libertà di culto né d’espressione. Ci sono voluti mesi e lunghissime camminate per raggiungere il Sudan, Khartoum: già arrivare lì fu una conquista. Dall’Eritrea sparano a vista sul confine, per dare un messaggio forte a tutti quelli che si mettono in mente di fuggire”.
La convinzione di non potercela fare, ma un lumicino di speranza come fonte d’energia per andare avanti: nella capitale sudanese il contatto con i trafficanti, un viaggio di giorni e giorni in macchina stipati con donne e bambini. Poi 10 giorni nel deserto, da bere acqua e benzina e da mangiare acqua e farina, per chiudere lo stomaco: “A quel punto non sei altro che una scatola di passata di pomodori: un prodotto da vendere. Se non davi i soldi ai trafficanti, ti riducevano in schiavitù, violentavano tua moglie e le tue figlie davanti ai tuoi occhi”. Il superamento del confine, passati di mano in mano, l’arrivo a Tripoli e il viaggio in mare: “Sulla barca eravamo 264 persone, 19 i bambini. Dopo 10 ore il motore si ferma, dopo qualche giorno una nave della guardia costiera malese ci ha riportato in Libia”. Il carcere nelle prigioni di Gheddafi, una peggio dell’altra. Ancora il deserto, e poi di nuovo Tripoli per ritentare la traversata del Mediterraneo: “Il viaggio fu traumatico, chi guidava la nave non era bravo. Pensai: ‘il Signore mi ha già salvato una volta, non lo farà di nuovo’. E invece sì: facemmo un incidente con un mercantile enorme per obbligarlo a soccorrerci, e arrivammo a Ortigia, Siracusa”. Era la fine del 2005: dopo quasi 4 anni – e circa 2 mila dollari – il viaggio di Tareke sembrava avviarsi a conclusione.
“Dopo 20 giorni avevo già il permesso di soggiorno. Non parlavo la lingua, non avevo soldi, non avevo la minima idea di che fare. Furono momenti bruttissimi: ero totalmente solo. Le persone non amano sentire questo passaggio della storia, perché dicono che non posso lamentarmi: già tanto che sono arrivato sano e salvo qui. Ok, ma non è così. I primi mesi dal mio arrivo furono una guerra fredda”. Da Trapani a Palermo, e poi Roma: lavori stagionali, a raccogliere pomodori e patate. Poi, l’impiego come mediatore culturale per Medici senza frontiere, la collaborazione con Save the Children e l’impegno per i minori stranieri non accompagnati. “Dopo la strage di Lampedusa del 3 ottobre ho deciso di mettere in piedi questo Comitato: ci battiamo per ottenere l'istituzione di una Giornata della memoria e dell’accoglienza, da celebrare simbolicamente ogni 3 ottobre a livello nazionale e internazionale. L’obiettivo è restituire dignità ai migranti che hanno perso la vita, ma anche onorare le persone che hanno rischiato la propria vita per soccorrerli e creare un momento di riflessione condivisa che permetta una reale cultura dell’accoglienza”.
Oggi, Tareke è sposato con una ragazza italiana e hanno due bambini. Era l’Italia il vero traguardo o, nelle intenzione iniziali, doveva essere solo una tappa? “Italia, Germania, Nord Europa, era la stessa cosa. Scappare attraverso Israele – è l’altra via – è ancora più pericoloso: il rischio di finire nelle mani di trafficanti di organi è altissimo. Volevo semplicemente vivere in un posto sicuro, dove poter uscire di casa senza rischiare di essere arrestato. È così per tutti: non ci si mette in viaggio rischiando la vita tanto per fare, ma solo ed esclusivamente perché si è disperati, e non c’è altra scelta. Nemmeno la paura della morte può fermare chi decide di fuggire: per questo non smetteranno di partire dalle coste libiche”. (Ambra Notari)