5 giugno 2018 ore: 15:02
Immigrazione

"L'umiliazione del rimpatrio": le voci dei tunisini in un report dell'Arci

Salvini li definisce “galeotti” e lancia l'azione di governo su rimpatri e espulsioni. Arci e il forum Ftdes hanno raccolto decine di storie di espulsi tunisini dal 2011. Prestianni (Arci): “Non li fanno atterrare a Tunisi, c'è la volontà di renderli invisibili. Gli espulsi hanno un solo scopo: ripartire”
Giulio Piscitelli/Contrasto Migranti tunisini imbarcati direzione Lampedusa

Foto di Giulio Piscitelli/Contrasto

MILANO – Sono partiti in 6 mila nel 2017. Dalle spiagge di Kélibia e Menzel Temine, penisola settentrionale della Tunisia che si affaccia sulle coste del trapanese e di Marsala, oppure dalle miniere di fosfato di Redeyef. È da queste aree che prende vita il flusso di giovani tunisini (più 200 per cento sul 2016) che ha tentato di raggiungere l'Italia lo scorso anno. Il neo ministro dell'interno, Matteo Salvini, li ha definiti “galeotti” suscitando la convocazione dell'ambasciatore italiano nella nazione del Maghreb, e ha lanciato un'azione di governo mirata a espulsioni e rimpatri. L'ultimo naufragio di un'imbarcazione proveniente da quelle coste, avvenuto domenica 3 giugno, racconta di 112 morti secondo l'Organizzazione internazionale delle migrazioni. Le storie di questa gioventù in fuga dalla disoccupazione cronica che attanaglia la Tunisia sono il cuore di “Externalisation policier watch”, un progetto di Arci in collaborazione con il Forum tunisino per i diritti economici e sociali (Ftdes). Si tratta di decine di testimonianze di migranti tunisini che tentano la traversata per essere rimpatriati una volta giunti in Italia. Voci raccolte da Arci grazie alla controparte sull'altra sponda del Mediterraneo, che ha curato un report di 30 pagine, e verranno presentate in conferenza stampa nelle prossime settimane “per portare la voce degli espulsi tunisini, il costo umano e le violazioni dei diritti” dice Sara Prestianni, responsabile immigrazione Arci nazionale e coordinatrice del progetto. “Abbiamo calcolato che il numero di espulsi rispetto al numero di arrivi non supera il 50 per cento – spiega – perché quando si parla dei voli per i rimpatri non ci sono mai più di 30-40 migranti alla volta. Per ognuno ci sono due poliziotti di guardia”. 

Sono infatti 2193 i rimpatriati tunisini nel 2017. Con quale meccanismo? “C'è un accordo bilaterale fra Italia e Tunisia rinnovato l'ultima volta il 5 aprile 2011 dal governo Berlusconi – spiega Prestianni –. La detenzione in media dura 30 giorni negli hotspot di Lampedusa, Pozzallo, Trapani o nel Cpr di Caltanisetta”. I voli partono due volte a settimana, al lunedì e al giovedì, “non da Fiumicino, ma dall'aeroporto di Palermo. Dove un console li riconosce sommariamente come cittadini tunisini chiedendo loro per esempio da quale spiaggia sono partiti. Vengono infine trasferiti in un piccolo scalo fra Tunisi e la città di Sfax e detenuti per qualche decina di ore prima di essere rilasciati”. Per la ricercatrice dell'Arci non sono questi luoghi e scali aeroportuali delle scelte casuali perché “c'è la volontà di rendere invisibile il fenomeno”, ma sopratutto “ciò che emerge con chiarezza è la componente psicologica e l'umiliazione di questo trattamento. Parlando con le persone espulse si capisce che hanno un solo obiettivo: mettere da parte 4 mila o 5 mila dinari e ripartire”.  

Il modello di rimpatrio all'italiana funziona così e quasi esclusivamente con la Tunisia. Ora che il tema è al centro dell'agenda politica dell'esecutivo Lega-Cinque Stelle, rimane da capire se e come è replicabile. “Facciamo espulsioni sulla base di accordi di riammissione anche con Egitto e uno col Marocco ma datato 1998 – prosegue Sara Prestianni –. C'è un accordo con la Nigeria stipulato dall'agenzia europea Frontex: gli irregolari vengano rintracciati a piccoli gruppi anche in tutti gli altri Paesi Ue, per esempio a Parigi o in Germania, e poi rimpatriati su charter gestiti direttamente da Frontex dall'aeroporto di Fiumicino”.  

Con le altre nazioni africane, l'Unione europea che nelle ultime ore sembra sposare in toto la linea del nuovo governo italiano, ha cambiato linguaggio: se in passato la strategia era cercare di firmare accordi di espulsione puri con i paesi di passaggio, purché accettassero tutti i transitanti, oggi preferisce parlare di accordi di partenariato oppure  di “accordi quadro con clausole di riammissione” di cui l'esempio più recente è quello con l'Afghanistan. “Serve ad addolcire la pillola – dice la ricercatrice Arci –. Prendiamo il caso del Mali, che di fatto accetta i cittadini espulsi, ma non vuole siglare accordi perché non può permettersi politicamente di inimicarsi tutta la propria diaspora, accettando le espulsioni senza colpo ferire. È più facile far accettare alle nazioni del Sahel un coinvolgimento nel controllo delle frontiere, con la donazione di mezzi e attrezzature anche militari o di personale per l'addestramento e solo in fondo a questa lista una clausola di riammissione”. È il caso del Sudan, con l'accordo di polizia del 2016 firmato fra l'Italia e la nazione del dittatore al-Bashir, che ha portato quell'estate alla retata di Ventimiglia di cittadini sudanesi. “Una vicenda che non si è più riproposta in Italia anche perché l'accordo con il Sudan non è di riammissione. Il Belgio ne ha uno che prevede come funzionari diplomatici sudanesi si rechino a Bruxelles per le identificazioni”. (Francesco Floris)

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