“La mia classe”: migranti che diventano visibili imparando l'italiano
boxROMA – C’è chi come Assirou, originario della Guinea, ama il calcio e le discoteche romane ma sogna di avere venti figli e molte mogli. E chi come Metin, orgoglioso delle sue origini curde, spera di tornare a lavorare in radio come faceva nel suo paese, ma per vivere ha fatto di tutto, dal marinaio all’addetto di vendite al cuoco. C’è poi Sharid il “capellone” e Jessica, che viene dal Perù e spera di trovare in Italia un futuro migliore anche per il figlio che porta in grembo. Sono questi soltanto alcuni dei protagonisti di “La mia classe”, il nuovo film di Daniele Gaglianone, sbarcati ieri al lido per la presentazione ufficiale oggi alla Mostra del cinema di Venezia. Nella selezione ufficiale delle Giornate degli autori sarà questa l’ unica pellicola italiana. Dopo la proiezione, prevista per le 17, il regista e gli alunni-attori incontreranno il pubblico.
BoxGirato all’interno di un Ctp (centro territoriale permanente) il film racconta la storia, a metà strada tra finzione e realtà, di un maestro (interpretato da Valerio Mastandrea) insegnante di italiano per stranieri. Le storie, così come i personaggi, sono infatti tutte vere e raccolte in giro per l’Italia nei diversi corsi L-2 per stranieri organizzati da associazioni ed enti locali. Attraverso le lezioni si racconta così il mondo variegato dei protagonisti migranti, provenienti da diverse parti del mondo, che cercano di imparare l’italiano, per avere il permesso di soggiorno, integrarsi e vivere nel nostro paese. Una realtà talmente forte e coinvolgente da irrompere a un certo punto sul set e modificare l’idea originaria del progetto. “Questo film è un atto di liberazione che abbiamo scelto di compiere a fronte di una situazione che ha provocato, in tutti noi che stavamo per realizzare questo progetto, un grande disagio – spiega il regista -. Stavamo preparando da mesi un film che raccontava l’esperienza di un professore di italiano con una classe di scuola serale per stranieri adulti. L’intenzione era quella di calarci il più possibile dentro la loro reale esperienza e farla incontrare con l’idea drammaturgica legata al personaggio del professore che avevamo elaborato. Ma ad un certo punto la realtà con cui siamo entrati in relazione ci è esplosa fra le mani. Non voglio rivelare precisamente che cosa è accaduto: sia sufficiente sapere che io (e non solo io) ho pensato seriamente di rinunciare a fare il film perché ci trovavamo in una situazione contraddittoria ai miei occhi non risolvibile. In pratica stavamo per raccontare delle vicende che erano uno sviluppo ipotetico e plausibile della condizione di alcuni studenti quando improvvisamente ciò che era solo un’idea di sceneggiatura diveniva un fatto reale che stava accadendo qui e ora. Avrei dovuto fare il secondino –aggiunge - paladino di una legalità che ritenevo e ritengo illegittima da un punto di vista etico e politico e contro la quale il film puntava il dito. Allora, grazie anche a intense conversazioni con Valerio Mastandrea e gli altri, abbiamo deciso di fare entrare a gamba tesa nel film tutto il disagio che stavamo provando in quella circostanza”.
Il regista sottolinea inoltre di aver voluto evitare il percorso, a volte ricattatorio, di raccontare situazioni difficili e al limite, per far sentire lo spettatore solidale col protagonista. “Gli studenti che provengono apparentemente da mondi rassicuratamente lontani dal nostro divengono familiari, divengono nostri attraverso le lezioni di italiano in tutta la loro dimensione sia didattica sia ludica: e allora smettono di essere invisibili, dei numeri di qualche macabra statistica che divide i morti dai sopravvissuti del naufragio, da chi è riuscito ad uscire vivo dal cassone di un tir dopo una settimana di viaggio e chi non ce l’ha fatta, chi ha attraversato il deserto senza cibo né acqua e chi è caduto dal camion per sempre, che infine, qui, divide i regolari dai ‘clandestini’ –continua Gaglianone -. Quando essi ci rivelano chi sono e da dove arrivano, a quel punto non possiamo più trovare rifugio né in un generico buonismo né in un rifiuto aprioristico a salvaguardia della sacra tranquillità del cittadino occidentale tranquillità nel frattempo compromessa. Il film nasce dalla sensazione disarmante di trovarsi a camminare su un campo minato insieme a degli amici, a delle persone di cui vogliamo prenderci cura –conclude - ma le mine esplodono solo per loro: il mio piede che preme su una pietra non mi fa saltare per aria, quello di Shady o Issa o Ester invece provoca uno scoppio. Non c’è nulla da fare: qualcuno o qualcosa giungerà sempre a tracciare una linea tra noi e loro”. (ec)