11 febbraio 2016 ore: 12:52
Giustizia

"Per i minori il carcere non serve": don Cannavera boccia la proposta di Alfano

Lo storico cappellano del carcere minorile di Quartucciu (Cagliari) si schiera con forza tra i “no” per l’abbassamento dell’età punibile lanciato dal ministro per contrastare l’emergenza omicidi a Napoli. “I ragazzi pagano gli errori degli adulti. Paradossalmente direi: arrestiamo genitori, insegnanti, preti ed educatori”
Minore in carcere si copre volto

ROMA –  “Il mondo è cambiato. Non possiamo credere che a 15,16,17 anni non si abbia la piena consapevolezza della gravità di possedere una pistola. Ecco perché ho proposto l’abbassamento dell’età punibile. Si chiama deterrenza, si deve avvertire la paura della reazione dello Stato”. Il ministro dell’Interno, Angelino Alfano, propone il pugno duro nel contrasto alle baby gang dopo “l’insopportabile aumento degli omicidi”, in controtendenza nazionale, a Napoli.

“Ma abbassare l’età punibile e soprattutto ricorrere al carcere non risolve affatto il problema”, gli fa eco don Ettore Cannavera, storico cappellano del carcere minorile di Quartucciu (Cagliari). Lui, che a molti di quei ragazzi al posto della pistola ha messo in mano una zappa. E una nuova vita.

“Quando ho letto la dichiarazione del ministro sono tornato mentalmente indietro di 6-8 anni, quando anche in Italia c’era stata la proposta di abbassare l’età della punibilità da 14 a 12 anni – commenta don Cannavera che a Cagliari ha fondato e gestisce “La Collina”, comunità di accoglienza di giovani adulti in misura alternativa -. C’è questa idea, secondo me del tutto sbagliata, che i minori nascano con la propensione alla delinquenza, quindi prima li blocchiamo meglio è. Ma non è così. Paradossalmente direi: genitori, insegnanti, preti, sono loro da mettere dentro”.

In attesa di conoscere i termini della proposta del ministro, se cioè si voglia abbassare l’età punibile a 12 anni (visto che è già fissata a 14 anni) o se si voglia applicare il regime penale degli adulti anche ai ragazzi di 16 anni (considerandoli maggiorenni e annullando da quell’età in poi le prerogative del processo penale minorile), abbiamo girato a don Cannavera i quesiti che in queste ore sono al centro della questione.

Un ragazzo tra i 14 e i 16 anni con una pistola in mano è consapevole di quello che sta facendo?
Ne ho avuti 12 qui per un omicidio commesso a 14, 15 e 16 anni. Il ragazzo con la pistola in mano pensa di essere qualcuno: io valgo, io sono, mi rispettano, mi guardano. Perché non ho altro da mettere in mano. Non ho cultura, non ho capacità sportive, non ho interessi. Ho una pistola in mano. Ma lui non spara perché deve uccidere, spara perché gli hanno detto: sei bravo, sai sparare, spara. Ho visto ragazzi che hanno fatto furti nelle auto e subito dopo hanno buttato tutto. “L’ho fatto perché così gli amici capiscono che sono bravo anche ad aprire le macchine”. E perché poi hai buttato tutto? “Non mi serviva”. Non è rubare per avere, ma rubare per dire chi sono. Ho in mano una pistola non perché ho bisogno di uccidere, ma per dimostrare ai miei che io so fare. Un’altra strada c’è. Allora a questi ragazzi diamo altre possibilità di saperlo fare, di non farlo con una pistola. Io lo faccio fare con la zappa. Qui c’è un’azienda agricola e i ragazzi lavorano la terra, anche chi ha avuto storie di omicidio. Un lavoro, un’altra opportunità di essere riconosciuto: non con la pistola ma con la zappa. Nel nostro carcere minorile ho avuto un ragazzino di 14 anni e tre giorni. Lo vedevo in chiesa che non toccava nemmeno i piedi per terra quando si sedeva sui banchi. Era un bambino, senza genitori. E siccome ne aveva fatta più di una, a un certo punto, in base alle leggi che abbiamo, lo avevano messo dentro. E’ civiltà?Dobbiamo dare la possibilità ai ragazzi di realizzarsi nella relazione positiva con gli altri: nella scuola, nello sport, nella musica. Altrimenti l’alternativa è nell’altro ambito che offre la società: avere una pistola in mano.

Come si relaziona con questi ragazzini?
Tento di lavorare con l’istituzione per farli uscire al più presto, cercando le misure alternative che non contemplino il rientro a casa, ovviamente. Non bisogna rimetterli nel loro contesto ma nelle comunità, in altri contesti che li aiutino. E dentro, rendere più umana possibile la convivenza, non tenerli chiusi in una cella, fargli fare più cose possibili, ma sempre accelerando l’uscita dal carcere. Perché il carcere, per quanto possa essere umanamente il migliore, è sempre dannoso in un’età in cui si vive l’esperienza più intensa della libertà.

Le responsabilità di chi sono?
I ragazzi sono già vittime: della cultura degli adulti che è fatta di sopraffazione, di uso della forza. Il minore che sbaglia è frutto della mancanza di una educazione alla legalità, alla realizzazione di sé. Il problema di fondo è di carattere antropologico:  devianti si nasce o si diventa? Oggi tutte le scienze hanno superato Lombroso. Se si diventa, di chi è la responsabilità? Della società, che vuol dire la casa, i genitori, la scuola, l’associazionismo, le parrocchie.

Per molti di loro il problema è in casa...
I bambini che hanno i genitori che spacciano, cosa apprendono? Che non c’è bisogno di andare a lavorare. E poi finiscono in carcere. Così vengono condanni due volte: prima perché non li abbiamo educati, anzi, hanno appreso dal contesto che per realizzarsi bisogna commettere reati, e poi perché li chiudiamo in carcere.

Quali rischi corrono?
La terza via, tra la legalità e l’illegalità, è l’annientamento, il suicidio. O mi realizzo nel bene, o lo faccio nel male, o mi anniento. I ragazzi sono l’anello più debole perché non possono protestare, non possono fare manifestazioni. E quando nessuna delle due vie è percorribile, si tolgono la vita.

Qual contributo offrono carcere minorile e comunità per la rieducazione?
Sono assolutamente contrario ad abbassare l’età imputabile, anzi io sono addirittura per abolire il carcere minorile perché non ha senso. Potendo intervenire andrei direttamente in senso opposto: da 14 a 16. Non da 14 a 12. Educare, diceva Paulo Freire, “è pratica di libertà”, come possiamo pensare che un carcere ti possa educare? E’ una contraddizione in termini. Il 70 per cento di chi sconta la pena in carcere è recidivo, quota che scende al 4 per cento tra chi sconta la pena in comunità. Leggete le statistiche, documentatevi su quello che è l’effetto della carcerazione e l’effetto della misura fuori dal carcere, in strutture dove il ragazzo viene accompagnato nel percorso di crescita ma vive spazi di libertà! In comunità il ragazzo non fa quello che vuole, ci sono regole anche molto rigide, ma in un contesto di relazioni libere: incontra chi vuole, i suoi familiari, i suoi amici, può uscire accompagnato. E’ un sistema diverso dal carcere, che invece gli toglie la libertà e gli permette il contatto con altri ragazzi che hanno anche più problemi di lui.

Se fosse ministro per un giorno, quali sono i primi provvedimenti che adotterebbe?
Aumentare le comunità, le misure alternative e diminuire il carcere. Questo sarebbe il primo passo. I ragazzi che commettono reati devono andare sotto la tutela di un tribunale per minori che individui strutture in cui possano essere ascoltati e seguiti nelle problematiche che hanno espresso commettendo il reato. Certo non devono essere privati della libertà. Il carcere dev'essere il provvedimento estremo, da riservare ai casi veramente eccezionali. Nelle carceri minorili oggi abbiamo circa 300 ragazzi: forse 20, 30, i casi più complessi, persone che presentano problematiche di carattere psichiatrico…tutti gli altri dovrebbero essere affidati alle comunità. Questo consentirebbe di ridurre moltissimo anche le spese. Il nostro carcere minorile oggi ospita 4 ragazzi, ci lavorano 45 persone e costa alla comunità due milioni di euro l’anno. Nella nostra comunità ci sono 8 ragazzi, ci lavorano 6 educatori e si spendono circa 200 mila euro l’anno, erogati dalla Regione Sardegna.

Cappellano per 23 anni, poi a maggio scorso le dimissioni. E’ ancora presente in carcere?
Mi sono dimesso polemicamente. Non sono più cappellano e combatto per far chiudere la struttura. Ma continuo a seguire i ragazzi, vado la domenica per la messa mentre mi sto gradualmente spostando al carcere degli adulti. Al minorile ci sono pochi ragazzi, al carcere di Uta, il più grande della Sardegna, abbiamo 574 detenuti. Il cappellano mi ha chiesto una mano e sono andato. (Teresa Valiani)

© Riproduzione riservata Ricevi la Newsletter gratuita Home Page Scegli il tuo abbonamento Leggi le ultime news