20 giugno 2017 ore: 13:52
Immigrazione

“Pro-tetto”, a Bologna 73 rifugiati accolti in famiglie o parrocchie

Dieci in nuclei familiari, 9 in strutture della Caritas e 54 in parrocchie. Sono 42 i percorsi conclusi, di cui 26 con un lavoro e una casa. Galletti (referente progetto per la Caritas di Bologna): “Funziona perché la collocazione in una comunità aumenta le opportunità”. Da settembre nuove accoglienze

BOLOGNA – H. è originario del Gambia, dopo aver trascorso un periodo in un Centro di accoglienza straordinaria è stato accolto da una famiglia del progetto “Pro-tetto” della Caritas diocesana di Bologna. “Avevo paura di andare a vivere con persone sconosciute”, dice. Ma anche se, nei primi giorni, è stato difficile per lui “aprirsi” alla famiglia, con il tempo si è creato un rapporto più solido. “Mi hanno aiutato molto, sono molto buoni, mi hanno tenuto come un figlio”. Per H. l’accoglienza in una famiglia ha portato anche un lavoro. E ora che il percorso si è concluso, continua a frequentare la famiglia italiana che lo ha ospitato per 6 mesi. In un anno e mezzo sono 73 i migranti accolti all’interno del progetto, di cui 10 in famiglia, 9 in due piccole strutture della Caritas diocesana e 54 in parrocchia. Sono 42 i percorsi che si sono conclusi, di cui 26 con il raggiungimento dell’autonomia lavorativa e abitativa, 7 con autonomia lavorativa e alloggio transitorio, 2 all’estero, 2 con l’inserimento in un percorso di studi universitario e 5 con una situazione non ancora stabilizzata. “Il progetto è rivolto a chi esce dai Cas e non ha un posto dove andare, non ha un lavoro e spesso non parla ancora bene l’italiano, persone che sono destinate a una vita in strada – spiega Ilaria Galletti, referente del progetto su Bologna – L’obiettivo è promuovere un cambio di cultura attraverso l’accoglienza”. A settembre partiranno nuove accoglienze, sono già 5 o 6 le realtà che si stanno preparando, tra cui anche alcune di quelle che hanno già accolto. 

Il progetto “Pro-tetto” si inserisce nel periodo successivo all’accoglienza nei Cas. “Qui i migranti rimangono un anno o anche più in attesa che venga esaminata la loro richiesta di asilo – spiega Francesca Tiberio di Caritas Bologna – Quando finalmente hanno in mano i documenti hanno circa una settimana di tempo per lasciare la struttura ma spesso non hanno né un lavoro né un posto dove andare. Il nostro progetto si colloca qui: non vogliamo sostituirci all’accoglienza dello Stato ma intervenire nel momento in cui le persone hanno ancora bisogno di fare un pezzettino di strada, insieme”. Il progetto di Caritas prevede l’accoglienza per  6 mesi in una famiglia o in parrocchia ma sempre con una famiglia tutor, “che rappresenta per il migrante il punto di riferimento a livello relazionale, un ponte tra sé e la comunità”, con una possibile proroga da 1 a 3 mesi. “Nei Cas, non sempre ma spesso è così, la loro vita si ferma – continua Galletti – Dare loro un ritmo, riprogettare la vita, con nuovi amici, funziona perché attraverso la collocazione in comunità le opportunità aumentano. I sei mesi sono sufficienti e quando il progetto finisce, le relazioni rimangono”. Ovviamente, ci sono state difficoltà, dubbi e paure, “ma grazie all’accompagnamento sistematico sono state superate. Questa è un’esperienza che lascia il segno”. 

L’esperienza del progetto “Pro-tetto” a Bologna è stata oggetto di una ricerca realizata da Ennio Ripamonti, psicosociologo e formatore dell’Università Bicocca di Milano, da cui è nato “Dentro i passi. Un anno di accoglienza: percorsi individuali e rigenerazione di comunità”, un libretto con le voci di migranti accolti e delle famiglie che li hanno accolti raccolte dai volontari del Servizio civile. “L’appello del Papa sicuramente è stata una leva per alcuni, altri erano già in fase premotivazionale, qualche famiglia lo ha fatto per tradizione di accoglienza o per dovere morale – ha raccontato Ripamonti – ma alcune lo hanno fatto per volere e molte ci hanno detto ‘è stato bello’, segno che per loro è stato un piacere”. Dalle interviste è emerso che alcuni problemi, come ad esempio la preoccupazione della diversità religiosa, non si sono verificati, che ci sono stati tempi diversi di costruzione delle relazioni, che la dinamica dell’accoglienza dipende da entrambi gli attori. “Spesso la posizione della persona accolta era di estrema gratitudine e faticava a dire cosa non aveva funzionato – continua Ripamonti – In altri c’era il rischio di paternalismo, il comportarsi come un genitore nei confronti di una persona adulta”. I risultati però sono “strepitosi”, perché trovarsi in una situazione tranquilla, protetta, “in cui non si dovevano preoccupare di cosa mangiare o dove dormire, si è rivelato un meccanismo psicologico potente. E sono emerse forti competenze”. Anche per chi ha accolto l’esperienza è stata interessante: “La narrazione della migrazione che ci arriva dai media è quella di un’invasione, di una massa indistinta, mentre questo progetto permette di umanizzare, di dare un volto a queste persone”. Infine, “la comunità fa fatica a essere coinvolta, in generale non solo per i richiedenti asilo, ma se sollecitata permette di attivare relazioni”. (lp) 

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