"Un secolo di italiani": ecco l'identikit della Coop
Milano - Europeisti traditi, italiani per le grandi occasioni, ma fondamentalmente local. Questo l’identikit dell’oggi a partire dall’Italia di ieri. Lo speciale “Un secolo di Italiani” è parte di “Italiani.Coop”, il nuovo strumento di ricerca e analisi curato dall’ufficio studi Coop consultabile a partire da venerdì 8 luglio.
Local tutti i giorni, italiani per le grandi occasioni. Lingua parlata e cibo sono forse la migliore espressione dell'identità territoriale degli italiani. Nel 1861, il 98% parlava dialetto in famiglia, ma ancora oggi a 155 anni dall'Unità d'Italia, a più di 90 anni dall'avvento della radio e a oltre 60 da quello della televisione 1 italiano su 10 parla soprattutto dialetto in famiglia e 2 su 100 lo fanno anche con gli estranei. Allo stesso modo è forse proprio nel cibo che la componente local è più evidente. Gli italiani preferiscono il cibo local (30%) a quello global (18%) perchè hanno più fiducia nei prodotti del territorio e sperano nelle ricadute locali delle loro scelte di consumo. Nella media europea invece è l'approccio global a risultare vincente (25% vs 23%). Ancorati ad una identità micro territoriale (lombardi, umbri, campani e persino leccesi, livornesi, catanesi, veronesi), siamo Italiani solo nelle grandi occasioni. Nel bene e nel male. Lo siamo quando gioca la Nazionale (oltre 21 milioni di spettatori complessivi per l’ultima partita degli Europei), italiani da primato ( i 20 Premi Nobel, i 4 Mondiali di calcio vinti, i 22 Premi Oscar), italiani nelle emergenze, siano esse calamità naturali (alluvioni o terremoti) o drammi attuali (la strage di Dacca).
La lunga metamorfosi degli italiani Nella storia dell’ultimo secolo è evidente la metamorfosi dell’italiano medio che da povero, sottonutrito, analfabeta e contadino (nel 1901 la spesa annua procapite era pari a 1600 euro annuali -140 euro mensili- un decimo dei consumi di oggi) ha raggiunto soprattutto dopo la seconda guerra mondiale maggiori livelli di benessere e una maggiore agiatezza: se ancora negli anni Sessanta i consumi erano compressi sotto i 5000 euro annui (417 euro al mese a persona) la crescita è continuata costante toccando i 10.000 euro del 1979 (833 euro a testa) e finanche gli oltre 17.000 euro nel 2010 (1417 euro a testa) per poi scendere ai 15.700 euro dell’anno scorso (1308 euro a testa) complice la grande depressione che dal 2008 si è abbattuta sull’Europa e ha avuto negli anni successivi inevitabili ripercussioni.
Ma è ancora una volta il cibo a dare la migliore rappresentazione del cambiamento dell’Italia e degli Italiani. Da popolo cresciuto a pane legumi e vegetali dove la carne, alimento nobile, faceva la sua comparsa a domeniche alterne e nemmeno quelle (nel primo decennio del secolo ne mangiavamo appena 15 chili procapite all’anno contro gli oltre 200 chili di pasta e pane) ai figli del boom economico cresciuti a proteine (la carne da un decennio all’altro anni 60/anni 80 aumenta di ben 20 chili procapite).
Più agiati, più vecchi, più egoisti L’identikit dell’italiano targato 2016 mostra come da premessa lati contradditori, ma affonda i piedi nella tradizione. Una vita più lunga (in 100 anni è raddoppiata), più solitaria, tra mura di case più grandi (4 stanze per due persone a fronte delle 4 stanze x 6 di inizio secolo), comunque preferibilmente fuori dai centri abitati. A parte “l’andare in città” di gaberiana memoria a cavallo degli anni Sessanta, ma lì comandava il miracolo economico, gli italiani partiti dalla montagna e dalla collina dove vivevano cent’anni fa hanno preso la via del mare e sempre di più sono diventati proprietari delle loro abitazioni (oggi lo sono 7 su 10). Nel frattempo hanno smesso di fare figli (in 100 anni il tasso di natalità diventa meno di un terzo di quello del 1901), da agricoltori sono diventati prima operai e poi terzisti, ma lavoro e famiglia sono tasti dolenti.
Sul lavoro gli italiani rispetto agli europei sono i più insoddisfatti delle loro mansioni ( in media il distacco è di dieci punti con un gap però di quasi 20 quando si parla di ambiente di lavoro; il 64% degli europei mostra piena e/o parziale soddisfazione a fronte di un 47% di italiani), in particolare si dicono soddisfatti dei propri capi o superiori il 36% degli italiani vs 52% degli europei, anche a se discapito di tutto questo non intendono cambiare: il 41% infatti vorrebbe comunque rimanere al proprio posto di lavoro per i prossimi 10 o 20 anni contro la media europea che si attesta sul 30%. Lontani comunque dal 49% dei Belgi. L’egoismo sociale poi domina indiscusso e la diffidenza si sfoga in ambito religioso; spicca non a caso il dato sull’ostilità che gli italiani mostrano nei confronti delle religioni, in Europa figuriamo terzi dopo la Russia e la Francia e nel tempo (lo studio fotografa l’andamento dal 2007 al 2014) la tendenza è in aumento. Tra le 25 nazioni più popolose al mondo questo importante e non invidiabile trend di crescita tra il 2013 e il 2014 ci accomuna solo con gli Usa e il Sud Africa.
L’Europeismo tradito degli italiani Agli inizi del secolo e fino al secondo dopoguerra era l’Europa la terra promessa, la nostra vera America tanto che i nostri antenati con la valigia andavano prevalentemente in Francia e in Svizzera (complessivamente 3,5 milioni e 3,3 a fronte dei 2,2 in rotta verso gli States) e a seguire in Germania. Nel secondo dopoguerra i primi sondaggi ci scoprono convinti sostenitori di un’Europa unita: nel 1952 ( l’anno di fondazione della CECA) il 57% degli italiani considerava l’adesione positiva e/o molto positiva e il trend rimane in crescita fino a toccare nel 1974 l’82% (il dato più alto in Europa) e ancora nel ’90 subito dopo il crollo del muro di Berlino il picco dei favorevoli all’integrazione europea sale all’86% contro ad esempio il 70 dei francesi e il 65% dei tedeschi. La vera e propria nascita dell’Ue nel ’92 ci trova invece più tiepidi e alla domanda se appartenere all’Unione abbia apportato benefici si esprime favorevolmente solo il 54% degli italiani (49% dei francesi e 47% dei tedeschi). L’introduzione della moneta unica ma soprattutto l’impatto della grande depressione iniziata nel 2008 ha rappresentato il punto di svolta nel rapporto tra italiani e Europa: nel 2008 l’indice di gradimento scende per la prima volta sotto il 50% per poi progressivamente scendere ancora e attestarsi sul 34% di favorevoli nel 2014, appena un timido recupero l’anno scorso (38%). Abbastanza simili le reazioni dei nostri vicini francesi e tedeschi che comunque partivano negli anni Settanta da aspirazioni più modeste, mentre è indubbio che alla Gran Bretagna l’Europa sia sempre stata stretta e paradossalmente gli inglesi si dichiarano più entusiasti negli anni ’50 e ’60 che non dopo il loro ingresso ufficiale nel ’73.
Ancora oggi, almeno teoricamente, siamo convinti che l’Europa dovrebbe giocare un ruolo importante nel mondo e dunque continuiamo a riconoscergli un valore (77% vs 74% di media Eu), ma quel tratto egoistico, di chiusura verso l’esterno si insinua e in un recente sondaggio alla domanda: pensa che il suo paese dovrebbe assumersi la responsabilità di aiutare gli altri nella risoluzione dei loro problemi o pensa che debba curarsi solo dei problemi domestici? Gli italiani rispondono al 67% che dovremmo occuparci solo dei nostri problemi. Siamo i terzi in Europa, prima di noi solo la Grecia con l’83% e l’Ungheria con il 77%.