''Uomini e caporali'', quando gli schiavi costano meno delle macchine...
CAPODARCO DI FERMO – “Uomini e caporali”, il libro di Alessandro Leogrande da pochi giorni in libreria, è un’inchiesta completa e dettagliata, svolta in prima persona e utilizzando non tanto i resoconti della stampa (pochi), quanto le carte dell’indagine, le testimonianze degli investigatori, delle vittime e dell’unico caporale pentito (il primo in assoluto), di sindacalisti e gente comune, e naturalmente i dati. I quali dicono che l’Italia è il secondo produttore di pomodori nel mondo, dopo gli Usa e prima della Cina; che degli oltre 50 milioni di quintali prodotti in Italia, più di un terzo è coltivato proprio nelle distese sterminate della Capitanata, in quel “Tavoliere dei caporali”; che ogni chilo di pomodori portato alla trasformazione (soprattutto negli stabilimenti della Campania) non rende al proprietario più di 6-7 centesimi; che i caporali continuano a trattenere almeno 50-60 centesimi (su 3,5 euro) per ogni “cassone” riempito; che sono almeno 15 mila i braccianti stranieri che arrivano nella capitanata per ogni stagione di pomodori; e che i soli braccianti polacchi in due anni non hanno fruttato più di 3-4 milioni di euro, una cifra elevata ma chiaramente irrisoria rispetto ai fatturati della grande criminalità.
Eppure questo sistema arcaico, rozzo e crudele – ma anche fragile tanto da essere debellato in pochi mesi – ha coinvolto centinaia di persone per così tanto tempo, ha retto appunto come “sistema” all’interno di una realtà considerata da molti immutabile. Una realtà in cui la diffusione dello sfruttamento si può leggere addirittura seguendo il mercato delle macchine per la raccolta dei pomodori. Molto costose e spesso solo noleggiate, l’uso e la vendita di tali macchine subiscono in quel periodo un crollo: è “normale”, spiega il libro, che di fronte ad dover pagare regolarmente il nolo e le 4-5 persone che la fanno funzionare, conviene avere 50-60 braccianti che non costano nulla. Succedeva già, ricorda Leogrande, nelle aziende schiavistiche nel sud degli Stati Uniti.
Leogrande fa però capire con chiarezza l’eccezionalità della vicenda dei polacchi, spegnendo in parte il possibile ottimismo indotto dalla sentenza del primo processo per schiavitù in Europa (Bari, febbraio 2008). Ricostruendo le caratteristiche dell’emigrazione polacca “Uomini e caporali” fa emergere lo stato di “disperazione” da parte di tanti giovani e meno giovani, attratti in Italia (con l’intermediazione di spietate “agenzie”) per guadagnare tanti soldi rispetto agli standard della Polonia, sapendo di dover lavorare molto duramente ma per un periodo che immaginano breve. Proprio questa transitorietà della loro permanenza, in quello che si rivelerà un vero inferno, è la loro debolezza. I braccianti africani, infatti, hanno di solito un progetto migratorio a lunga scadenza, vogliono “sistemarsi” e vanno in Puglia per un periodo limitato muovendosi di solito dalle città del nord: non sono disposti ad accettare quelle condizioni, sono in grado di trattare con i caporali, perché con quei pochi soldi in Italia non fanno nulla.
C’è poi un’altra domanda inquietante a cui il libro risponde. Ma perché sono stati scoperti solo gli schiavi polacchi, mentre è risaputo che in tutto il sud lavorano, spesso in condizioni simili, braccianti di ogni provenienza (che sia Africa o Europa dell’Est)? Per una serie di circostanze, come si è visto, ma soprattutto perché in Puglia esiste un consolato polacco, retto da un console onorario che si chiama Domenico Centrone, il cui ruolo è determinante in questa storia. Altre nazionalità, semplicemente, non hanno referenti, né in Puglia né in Sicilia o Campania; le loro denunce, nei pochi casi in cui potrebbero emergere, non sono raccolte...
Cosa sta avvenendo ora sulle terre della Capitanata? Il fenomeno dei braccianti polacchi è ormai molto ridotto, la stagione di raccolta appena trascorsa sembra sia stata caratterizzata dai migranti romeni, la tendenza fa pensare che il flusso dall’Est proseguirà ancora per un po’ coinvolgendo stati più poveri della Polonia, ormai avviata alla modernità. Sono aumentati i controlli nelle aziende, seppure con fatica, e il borsino dei macchinari è in netta crescita. Restano però le domande dei familiari di almeno 90 “desaparecidos” polacchi, le cui foto sono tuttora mostrate in giornali e trasmissioni tv, pochissimi di loro sepolti, seppure senza nome, in qualche cimitero pugliese come quello di Orta Nova con cui si apre la narrazione di Leogrande. E restano aperte le domande sul ruolo di proprietari e industrie, autentici convitati di pietra del libro, discendenti in fondo da quel “patto di sangue” del 1920; così come il ruolo dei consumatori di quei pomodori, di tutti noi che li adoriamo e non domandiamo certo quale strada hanno fatto.
Con una scrittura matura e trasparente, dove convivono felicemente i diversi registri della cronaca, della ricostruzione (e riflessione) storica, della denuncia fatta con parole ferme e mai urlate, Leogrande è riuscito a consegnare ai lettori una grande inchiesta sociale e giornalistica, “colorata di vita e non solo di notizie”, al pari di altre che stanno uscendo in questi anni e che testimoniano forse come siano sempre più necessari i libri, rispetto ai giornali di oggi, per capire il nostro presente e il nostro recente passato. (st)