“Voglio tornare in carcere”. Il disorientamento degli ex detenuti
boxFIRENZE – “Voglio tornare in carcere”. Non è la frase di un folle, ma l’auspicio di alcuni detenuti che, scontata la pena, si ritrovano liberi ma senza una casa, senza una famiglia e senza un lavoro. Trascurati dai servizi sociali, rischiano di tornare nel tunnel della criminalità e diventare recidivi. Oppure chiedono di rientrare in carcere, dove almeno c’è un letto, un tetto e tre pasti al giorno. Non succede spesso naturalmente, ma esistono alcuni casi, come quello denunciato pochi giorni fa dal sindacato penitenziario Sappe di Arezzo, dove un detenuto di 33 anni nato a Napoli e residente a Foiano della Chiana (Ar), che stava scontando la pena agli arresti domiciliari, ha chiesto di tornare in carcere perché non aveva di che mangiare. “Anche questo è un aspetto reale della crisi economica che ha colpito molti strati della popolazione e vasti settori della marginalità sociale, come detenuti ed ex detenuti” è il commento del segretario del Sappe Donato Capece. “Questo caso non è un’eccezione” precisa il sindacalista.
“Un recluso che esce dal carcere si trova disorientato. Difficile il reinserimento visto che sono pochi i datori di lavoro disposti ad assumere un ex detenuto” aggiunge Capece. Parole che trovano conferma anche nel pensiero del parroco del carcere di Sollicciano Don Vincenzo Russo: “I casi come questo sono numerosi, c’è un buco nero della società nel momento del passaggio dei detenuti dal carcere alla libertà”. Sul tema dei servizi sociali, Capece aggiunge: “I servizi sociali sono assenti quando i reclusi escono, invece è proprio in questo cruciale momento che dovrebbero entrare in azione per avviare le persone all’autonomia e scongiurare la recidività. I detenuti non hanno nessun assistente sociale. Servirebbe una struttura ad hoc che colmasse queste lacune”.
Lo pensa anche Franco Corleone, coordinatore nazionale dei garanti: “Spesso l’uscita dal carcere porta nella situazione precedente all’entrata. Visto che sappiamo della scarcerazione sei mesi prima che questa avvenga, le istituzioni potrebbero intervenire per tempo attraverso una rete di servizi in grado di preparare i reclusi all’uscita. Servono risorse e se il sistema di welfare viene cancellato tutto questo diventerà impossibile”. Anche perché, aggiunge Corleone, “molto spesso le persone che escono dal carcere non hanno neppure la residenza e quindi non possono usufruire degli aiuti”.
Secondo Alessio Scandurra dell’associazione Antigone, fenomeni come quello di Arezzo “sono casi isolati” che però mettono in luce “un problema reale”. “Ogni anno escono di galera circa 80 mila persone – spiega Scandurra – e spesso sono più povere di quando sono entrate, senza punti di riferimento sul territorio, con la residenza perduta”. Condizioni talmente precarie, dice Scandurra, che “abbiamo avuto esperienze di detenuti che non avevano pure i soldi del biglietto per raggiungere la città di residenza di parenti o amici”.
Sulla stessa linea anche Ornella Favero di Ristretti Orizzonti: “Persone che vogliono rientrare in carcere? Casi isolati”. Esiste però il problema del disorientamento dei reclusi una volta usciti. Ecco perché, sostiene Favero, “devono essere incrementate le misure alternative e i permessi premio, che non sono sconti di pena, ma l’unico modo affinché il detenuto possa reinserirsi gradualmente nella società”.