6 febbraio 2015 ore: 15:46
Non profit

Andrea Parisi, in Pakistan con Giovanni Lo Porto: "Lo aspettiamo da 3 anni"

Il cooperante triestino era a Multan il giorno del sequestro del collega palermitano. 45 anni e una lunga esperienza da cooperante: “Eravamo a cena quando ci avvisarono: credevamo che l’avrebbero liberato subito"
Giovanni Lo Porto

Giovanni Lo Porto

BOLOGNA - “Era il 19 gennaio 2012. Alcuni uomini entrarono nel compound: c’erano Giovanni, Bernd e un’altra cooperante tedesca. Molto determinati, chiesero dei soldi. La donna salì al piano di sopra per prenderli: quando tornò, li avevano già portati via”. Andrea Parisi, cooperante triestino, era a Multan il giorno in cui Giovanni Lo Porto e Bernd Muehlenbeck furono rapiti. 45 anni e una lunga esperienza da cooperante – Palestina, Indonesia, Vietnam, Pakistan, Libano – Parisi ha conosciuto Giovanni Lo Porto a fine 2010: “Allora lavoravamo entrambi per Cesvi. Ero arrivato a Multan da pochi giorni. Giovanni mi ha lasciato le consegne, dovevo chiudere il suo progetto. Era felice di andarsene, aveva affrontato la fase più dura dell’emergenza. Mi disse che aveva in programma un viaggio in solitaria introno al mondo. Voleva prendersi una pausa lunga, allontanarsi per un po’ dal mondo della cooperazione”. In realtà, le cose andarono diversamente: poco più di un anno dopo, i due si ritrovarono. Stesso posto, stesso lavoro: la seconda tranche del progetto che li fece incontrare, un progetto gestito da 5 ong europee. Andrea, ancora tra le fila di Cesvi e Giovanni, passato a Welthungerhilfe: “Non aveva saputo resistere al richiamo di quell’area”. Così, i due ricominciarono a lavorare fianco a fianco, per aiutare le famiglie colpite dalle alluvioni del 2010, che avevano letteralmente sciolto buona parte delle case di fango di pastori e agricoltori. “Lavorare nella zona di Multan non è facilissimo, spesso ci sono 50 gradi di notte, e le persone abitano in case piccolissime. Noi eravamo lì per ricostruire le case con materiali più durevoli, quando possibile rialzate, perché le piccole esondazioni sono all’ordine del giorno. Costruivamo anche latrine, distribuivamo pecore d’allevamento e fertilizzanti. Insomma, era un programma composito per tamponare le prime emergenze e sollecitare la ripresa delle attività produttive”.

Giovanni Lo Porto
Giovanni Lo Porto

Multan sorge al centro del Pakistan, conta un milione e mezzo di persone: lì le ong sono collocate in un’area riservata all’esercito, controllata e benestante: “L’ufficio della Welthungerhilfe era una casa recintata, con le guardie private all’esterno. Non era mai successo niente, e non è successo più nulla dopo”. A separare quel ‘prima’ e quel ‘dopo’ è il sequestro dei 2 cooperanti: “Ero a cena nella foresteria del Cesvi con altri 3 colleghi italiani. Ci telefonò un collega locale e disse del rapimento. Hanno subito pensato che fosse meglio che anche noi ce ne andassimo da lì, e quella notte dormimmo nell’albergo di una persona di fiducia. Sì, ero preoccupato, ma relativamente tranquillo. In Pakistan rapiscono 30 mila persone all’anno: chiedono soldi. Così pensai che sarebbe successo così, che il governo avrebbe pagato – è bruttissimo dirlo, ma purtroppo funziona così – e l’avrebbero liberato presto, ma non fu così”. Per protesta, la Welthungerhilfe decise di lasciare Multan, mentre Cesvi scelse di restare, perché troppe persone erano già state coinvolte nel progetto, e a quel punto stavano aspettando una casa: “La nostra impressione era che quel sequestro sarebbe stato un evento unico, che non si sarebbe più ripetuto. Anche le Nazioni Unite diedero il via libera per restare a Multan, e così facemmo”.

Perché quel sequestro, allora? “Io mi sono fatto la mia idea: i talebani, ammesso che ci siano davvero loro dietro il rapimento, hanno voluto dimostrare ai servizi segreti pakistani (Isi) di poter arrivare dovunque, anche dove non erano mai arrivati prima. Questo episodio, infatti, ha gettato un sacco di discredito sui servizi segreti di Multan, che si sono sentiti pungere sul vivo, come se qualcuno gliel’avesse fatta sotto agli occhi”. Ad avvalorare l’ipotesi di Andrea, l’arrivo al compound di un pezzo grosso dell’Isi: “Due funzionari erano sempre con noi, erano addirittura simpatici, con loro parlavano di macchine italiane. L’impressione, però, è che non riuscissero a venire a capo del sequestro, così un giorno arrivò un capo”. I due chiesero ad Andrea di accompagnarli a mostrare al capo il compound della Welthungerhilfe: “Io non venni neppure interpellato. Lui diede un’occhiata in giro, e mi diede l’impressione di avere già capito tutto. Ma ripeto: tutto ciò non è altro che la mia idea, di notizie ufficiali non ce ne sono mai state”.

E come si fa a resistere a 3 anni di silenzio? “Beh, non è stato un silenzio vero e proprio: nel videomessaggio dell’ottobre 2012 Berndt parlava al plurale. E poi gli ‘spifferi’ usciti dalla Farnesina sono sempre stati positivi. Quando è stato liberato Berndt, lo scorso ottobre, ci eravamo convinti che anche la liberazione di Giovanni sarebbe stata imminente. Purtroppo, sono già passati alcuni mesi”. È probabile, come racconta Andrea, che i rapitori dopo quel giorno si siano sentiti in pericolo, con la polizia alle calcagna, e che abbiano preferito ritirarsi per un po’: “Quando si parla di Giovanni, ci sentiamo sempre avvolti da vibrazioni positive, per questo continuiamo a credere che presto sarà libero”. (Ambra Notari)

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