Arriva in tribunale la battaglia dei caregiver familiari
Sabina con la figlia Sashah
ROMA - È stata rinviata al prossimo 14 ottobre l’udienza relativa al ricorso a favore dei caregiver familiari, che chiedono il riconoscimento giuridico di quella particolare categoria di persone che si prende cura dei propri familiari non autosufficienti affetti da grave disabilità o malattia. Un impegno a titolo del tutto gratuito, che permette ingenti risparmi alla casse dello Stato: dai 400 ai 1000 euro al giorno a famiglia, secondo le stime dei ricorrenti. La battaglia dinanzi ai giudici del Tribunale del lavoro è partita circa due anni fa, quando il Coordinamento nazionale famiglie disabili gravi e gravissimi ha presentato un’azione collettiva nei confronti dell’Inps nelle città di Milano, Roma e Palermo, a cui hanno preso parte 400 ricorrenti, di cui oltre 100 nella sola Capitale. Obiettivo: l’accesso ai diritti umani fondamentali, dal riconoscimento delle tutele previdenziali al diritto alle cure mediche. “Stanchi delle troppe leggi ferme da troppo tempo in Parlamento abbiamo deciso di intraprendere un’azione legale – spiega Chiara Bonanno, portavoce del Coordinamento e promotrice del blog dedicato ai caregiver familiari “La cura invisibile”(http://la-cura-invisibile.blogspot.it) –. Il ricorso mira al riconoscimento dei diritti umani più elementari per i family caregiver, quali quello al riposo, alla salute, alla vita sociale, completamente annullati in un contesto di moderna schiavitù sommersa di cui molti sono all’oscuro. Ci sentiamo ai domiciliari, senza aver commesso un reato”.
Anna, 49 anni, un impiego nel settore vendite di una multinazionale, si prende cura da sola della propria figlia 27enne, affetta da una grave cerebrolesione. “Sono separata da quando lei aveva tre anni, il mio compagno è morto due anni fa, la mia famiglia è in Sicilia e il padre di mia figlia da due anni non telefona neppure per sapere se è viva o se è morta – racconta –. La mia azienda non sa che ho una figlia disabile, devo comprare dei farmaci molto costosi che non vengono forniti dalla sanità pubblica e mio marito non paga gli alimenti. Posso usufruire di cinque ore e mezzo di assistenza domiciliare dal lunedì al venerdì, che non mi coprono neppure l’orario di lavoro, il resto devo pagarlo io. Il sabato e la domenica svolgo da sola il lavoro di cinque persone. Negli ultimi anni mi sono dovuta sottoporre a due interventi chirurgici e ho un problema al cuore. Trovare il tempo per curarmi è un problema». Un problema che Anna condivide con tanti altri caregiver familiari, le cui condizioni di salute risentono di una vita difficile e talvolta ai limiti delle potenzialità umane e che, in alcuni casi, non riescono neppure a trovare il tempo necessario per fare visite ed esami. “Eppure – precisa Bonanno – non vogliamo mandare i nostri cari negli istituti, perché vogliamo comunque consentirgli di fare una vita dignitosa tra i propri affetti e nel proprio ambiente”.
“Nei confronti delle nostre istanze c’è stata una chiusura tombale – commenta l’avvocato Marco Vorano, che ha seguito la causa insieme a un team di giuristi e legali –. Ci siamo rivolti al Tribunale perché, non essendoci una norma specifica, ci appelliamo al principio dell’analogia rispetto a chi si trova in situazioni simili, come per esempio chi svolge un lavoro usurante. Non esiste una legge, la politica non ci ascolta e allora non ci resta che il Tribunale per far valere le nostre ragioni". Già lo scorso 15 luglio la sezione Lavoro del Tribunale di Milano aveva dichiarato nullo il ricorso. Il motivo? Perché il problema sottoposto all’autorità giudiziaria dovrebbe trovare la soluzione tra le aule del Parlamento. Ma i caregiver non si arrendono e in molti già pensano di portare le loro istanze alla Corte Europea per i diritti umani e al Consiglio per i diritti umani delle Nazioni Unite. Nel frattempo hanno trovato un simbolo che ha l’ambizione di fare il giro del mondo: un nastro arancio-blu a sostegno dei diritti del family caregiver. L’arancio per indicare i diritti umani, il blu navy contro la schiavitù. (Antonella Patete)