Bambini detenuti a Rebibbia: presto la prima casa protetta
Roma - Non hanno mai camminato su un prato, non sono mai andati al mare e non hanno mai visto una finestra senza sbarre. Sono i 34 bambini con meno di tre anni che vivono con le loro mamme detenute negli istituti penitenziari italiani. La legge 354 del 1975 consente alle donne con figli dai 0 ai tre anni di portarli con loro in carcere: una legge pensata per evitare traumi ai piccoli ma che ha i suoi effetti negativi per chi trascorre i primi anni di vita in una cella. Lo sanno bene le otto mamme detenute a Rebibbia, tutte giovanissime, che oggi hanno partecipato alla conferenza stampa organizzata dal senatore Luigi Manconi e dal ministro della Giustizia Andrea Orlando nel penitenziario romano. Un sorriso si stampa sul loro volto, quando il ministro promette che entro il 2015 nessun bambino sarà più costretto a vivere in carcere. “È una vergogna contro il senso di umanità”, afferma.
Prima che vengano portate di nuovo in cella dagli agenti penitenziari, riusciamo a scambiare qualche parola con loro. “Sono contenta”, racconta Angela (nome di fantasia), “mio figlio ha tre anni e non vive bene qui. Quando è sera mi guarda e mi dice: ‘mamma fra poco vengono a chiuderci dentro’. Forse tra qualche mese ci trasferiranno altrove”. Angela e il suo piccolo potrebbero essere i primi ad entrare nell’unica Casa famiglia protetta per madri detenute in Italia. Ad annunciare l’imminente apertura il ministro Orlando e Luigi Manconi, presidente della Commissione per la tutela dei diritti umani del Senato.
Nel 2001 la legge Finocchiaro ha introdotto le misure cautelari alternative per le madri con figli. Il problema però è rimasto per le detenute rom, per le straniere o per chi non ha una dimora fissa e non può così usufruire degli arresti domiciliari. Per questo è stata approvata una nuova legge che ha istituto le Case famiglia protette, dove le donne che non hanno un posto dove vivere possono trascorrere la detenzione portando con sé i bambini fino a 10 anni. Sono dei veri e propri appartamenti, senza sbarre e cancelli. Possono ospitare un massimo di sei nuclei familiari e le mamme possono anche portare a scuola i bambini o accompagnarli alle visite mediche. Ma, nonostante la legge sia entrata in vigore il primo gennaio del 2014, ancora non sono state aperte. “Le Case famiglia protette rappresentano l’unica via possibile per tutelare questi innocenti. Siamo responsabili di come cresceranno questi bambini”, afferma la senatrice Anna Finocchiaro, presente alla conferenza.
Attualmente i 34 bambini reclusi si trovano in due tipologie diverse di istituti: 19 nei reparti ordinari delle carceri e 15 negli Icam, istituto a custodia attenuata per detenute madri, di Milano, Torino e Venezia. Gli Icam sono delle strutture detentive più leggere, istituite in via sperimentale nel 2006 per permettere alle detenute madri che non possono beneficiare di misure alternative di tenere con sé i figli. Nonostante abbiano un aspetto più accogliente, sono delle carceri a tutti gli effetti: “Sono una soluzione ambigua e non più percorribile”, ammette Finocchiaro.
A far conoscere il mondo vero agli otto bambini di Rebibbia ci sono i cento volontari dell’associazione “A Roma, Insieme”. “Il sabato li portiamo in giro per la città con il consenso delle mamme”, racconta Giovanna Longo dell’associazione. “Per fortuna sono ancora piccoli, hanno tutti da 0 ai 3 anni e non si rendono bene conto della situazione. Vivono in celle con la loro mamma e quella di un altro bambino. Durante l’anno li portiamo all’asilo e d’estate in vacanza. Quando finalmente escono, hanno uno sguardo smarrito. Uno di loro una volta ha detto alla nostra volontaria che lo aveva portato a casa sua: ‘che bella cella che hai’”. L’apertura di una Casa famiglia protetta era una notizia che l’associazione aspettava da tempo, come ha affermato il vicepresidente Gustavo Imbellone: “Ora vogliamo vedere i fatti, ma siamo fiduciosi”.
Caterina (nome di fantasia), da due anni in carcere, uscirà a settembre. “Quando sono entrata, mio figlio aveva un anno e quattro mesi, ora ne ha tre. Non sarò trasferita in questa nuova struttura ma sono felice per le altre. Il carcere non è il posto giusto per i nostri bambini”. I volontari dell’associazione “A Roma, Insieme” resteranno al suo fianco: “È importante aiutarle soprattutto dopo, quando devono ricostruire la loro vita”, afferma Longo. “Cerchiamo di trovare loro un lavoro e stiamo vicini anche ai bambini più grandi che fanno visita ai loro genitori detenuti”. Caterina non sa cosa sarà del suo futuro e soprattutto di quello di suo figlio ma non vuole più cadere negli stessi errori: “Ho imparato la lezione”, confessa. (Maria Gabriella Lanza)