Bloccati in Grecia, nel limbo dei campi intorno a Salonicco
Foto: Alberta Aureli
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di Eleonora Camilli, foto Alberta Aureli
SALONICCO - Coperta nel suo lungo abito nero, Afitim spinge avanti e indietro l’altalena costruita per la sua piccola Alisya. Una tavoletta e due fili, appesi ai montanti di questa tenda sotto il sole rovente, che oggi è la sua casa. - Quella in cui viveva, in Siria, è stata bombardata. E così insieme al marito e la figlia di soli tre anni, ha deciso di tentare il viaggio verso la Germania. Non sapevano, però, che si sarebbero fermati qui, una volta arrivati in Grecia e che, a cinque mesi di distanza dalla loro partenza, il futuro sarebbe stato un campo profughi nel cuore dell’Europa.
Quello di Sindos Softex a pochi chilometri da Salonicco, la seconda città più grande del paese, dopo Atene. In questa ex fabbrica vivono, insieme a loro le persone sgomberate da Idomeni e da altri campi informali, come l’Eko Station e l’hotel Hara, nati a pochi chilometri dal confine con la Macedonia, dopo la chiusura della frontiera. Circa 1600: la maggior parte in tende sistemate nell’ampio spazio all’aperto, il resto nell’ex capannone centrale. Tutti in condizioni fatiscenti. Il 28 luglio una ragazza di 17 anni è morta qui: secondo le prime ricostruzioni ha avuto un attacco epilettico, ma i ritardi nei soccorsi non hanno permesso di salvarla. Un episodio che ha incrementato l’insofferenza dei rifugiati, già provati da una quotidianità precaria.
In questo centro e negli altri dislocati nei dintorni, sono stati portati per le preregistrazioni secondo il sistema hotspot, aspetteranno qui anche l'iter della domanda di asilo, di ricongiungimento familiare oppure l'adesione al programma di relocation. Chi di loro non verrà riconosciuto come rifugiato sarà, invece, rimandato in Turchia (se arrivato in Grecia dopo il 20 marzo), secondo quanto prevede il contestato accordo stipulato tra il governo di Ankara e l’Unione europea, che neanche le dure repressioni di queste ultime settimane hanno messo in discussione. Il programma europeo è per ora un flop: secondo un’analisi di fact cheking realizzata da Unhcr, Open society e Carta di Roma, all’11 luglio sono solo 3000 le persone ricollocate, 843 dall’ Italia e 2213 dalla Grecia. Numeri lontani dal raggiungere le 160 mila relocation previste entro settembre 2017. Pochi per ora anche i rimpatri.
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Intanto le persone aspettano. In tutta la Grecia sono 57 mila le persone in questa situazione, una piccola parte nelle isole, la maggioranza sulla terraferma tra Atene e Salonicco. A Sindos-Softex le tende sono circa 400. Ognuna ha un numero identificativo. Quelle nello spazio esterno sono tutte sotto il sole, dentro fa molto caldo, l’aria è irrespirabile. Afitim ha sistemato la sua in ogni angolo, con cura: da una parte i vestiti, dall’altra piatti e bicchieri. C’è anche una tenda più piccola con il materasso per Alisya. “Mio marito faceva il camionista in Siria, ma negli ultimi anni per lui non c’era più lavoro. Quando abbiamo perso anche la casa abbiamo capito che per noi non c’era più scampo e così siamo partiti sperando di ricominciare la nostra vita – racconta la donna, 30 anni -. Dopo due mesi passati in Turchia, siamo saliti su un gommone con altre 50 persone. Un viaggio orribile, avevo paura ogni secondo di cadere, tenevo mia figlia stretta a me. Poi siamo arrivati qui, in Grecia. Ma non immaginavamo questo. Volevamo andare in Germania e invece ci siamo trovati bloccati. Prima a Idomeni, poi qui. Ora non ci importa più niente, va bene qualsiasi paese, basta che riusciamo ad andarcene via. Vogliamo trovarci un lavoro”. Alisya la interrompe, vuole giocare, le porge un bambolotto verde. “Si annoia – continua la donna – questo non è un posto per bambini”.
Fuori dalle tende altri ragazzini si divertono come possono: c’è un’altalena in legno e uno scivolo. Alcuni giocano a calcio, altri si azzuffano, uno di loro mi corre incontro per mostrarmi divertito il suo tatuaggio. Una scritta che si è fatto da solo sul braccio: "Cristiano Ronaldo". Poco più in là altri bambini, lanciano pietre a un piccolo ruscello pieno di detriti e immondizia, hanno rotto la recinzione, nessuno l’ha ricostruita.
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All’ingresso del capannone centrale c’è una lunga fila: è l’ora di pranzo, stanno distribuendo il cibo. Per evitare la calca, mi spiegano, c’è un referente per ogni fila di tende che va lì a fare rifornimento e poi divide i vivere con i vicini. Se possibile, la situazione all’interno del fabbricato è anche peggiore di quella nello spazio esterno . Il grande edificio è al buio, le tende sono molto vicine e c’è molta immondizia. Nessuno standard di sicurezza è rispettato, ci sono bombole del gas e fornelli accesi. Una donna, appena fuori dalla sua tenda, sta cucinando le verdure, il pasto per la famiglia. Sono in tanti a farlo perché il cibo distribuito è scadente, ma i piccoli fornelli accesi mettono ancora di più le persone a rischio: una fiamma poco più alta potrebbe scatenare un incendio in qualsiasi momento. Poco più in là tre ragazzi algerini stanno ricaricando il cellulare. “Abbiamo fatto la rotta greca perché la Libia è un inferno – sottolineano – ce lo hanno detto tutti, e così siamo venuti in Grecia”. Sanno di non aver alcuna speranza di ottenere una qualche forma di protezione internazionale: “proveremo comunque a passare appena sarà possibile”, aggiungono.
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Una situazione simile c’è anche nel campo di Vasilika, a pochi chilometri di distanza da Sindos: le tende sono 305, tutte collocate all’interno della vecchia fabbrica, qui si dorme sul cemento. Ci sono circa 1250 persone, divise in sette padiglioni. Il caldo anche qui è soffocante. In tanti provano a riposarsi, sdraiati a terra ma è quasi impossibile. Nel padiglione sette, da giorni è in corso una protesta: chiedono di avere dei ventilatori da sistemare dentro le tende, soprattutto quelli che hanno bambini piccoli. Chi ha ancora qualche soldo è riuscito a comprarseli da solo, gli altri aspettano che le organizzazioni che operano all’interno provvedano, da qui a qualche giorno dovrebbe essere ultimata la distribuzione in tutte le tende. Dal campo si può uscire, è facile arrivare col bus a Salonicco. Alcuni dei migranti si sono organizzati per ricreare all’interno un piccolo market: vanno in città comprano frutta, verdura, prodotti per l’igiene personale, sigarette, e poi li rivendono qui. Altri per impegnare la giornata hanno ricominciato a fare il loro mestiere, come un ragazzo che in Siria faceva il barbiere e che ora ha ripreso a tagliare i capelli agli altri rifugiati. Ha sistemato per bene specchio e utensili in un angolo, un piccolo tavolino e una sedia per i “clienti”. Mostra orgoglioso la foto che ha appeso alla parete e che lo ritrae mentre fa la barba a un ragazzo nel campo infomale di Eko station, sgomberato poche settimane fa. “E’ andata sul giornale l’hanno vista tutti - dice -. Qui faccio barba e capelli anche per sentirmi utile, non c’è niente da fare tutto il giorno. Le persone mi danno quello che hanno, senza problemi, non c’è un tariffario, è un’offerta libera”. Vorrebbe aprirsi un negozio tutto suo da qualche altra parte lontano da qui. Nel campo vive con sua moglie e il bambino di appena un anno: “è bellissimo, è biondo, mia moglie ha origini russe, ce ne sono pochi di bambini così belli” ripete continuamente.
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Dall’alto si sente il suono dell’altoparlante: le persone di origine irachena sono chiamate a presentarsi all’entrata per la registrazione. Piano piano un gruppo di persone esce e si raduna all’ingresso dove ci sono i funzionari dell’Unhcr. Da una parte, seduta accanto ad altre due ragazze, Avin, siriana, 15 anni, ascolta musica. “Noi chiederemo il ricongiungimento familiare con mio fratello, che è in Germania e lavora lì – dice -. Ora qui siamo in sei, io, i miei genitori e altri tre fratelli. Dormiamo tutti in un’unica tenda. La notte non si respira e le condizioni del campo sono pessime”.
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Ci spostiamo di altri quaranta chilometri. L’insegna S.K. Market troneggia ancora all’ingresso del vecchio magazzino per generi alimentari di Kalahori, che ora ospita circa 600 persone. La metà sono bambini. Sydra è nata da una settimana, sua madre Gulistan ha 21 anni e un viso da bambina. L’ha sistemata in una cesta di vimini, dorme tranquilla accanto al papà. Poco più in là un altro bambino di pochi mesi piange, vuole mangiare. Ce ne sono tantissimi di minori, di pochi anni o addirittura pochi mesi. I migranti e i rifugiati che arrivano in Grecia, dalla Siria, dall’Afghanistan, dal Pakistan, sono tutti molto giovani. Persone che si sono appena sposate, che hanno deciso di partire dopo la nascita del figlio, ma anche giovani che qui hanno deciso di metter su famiglia, perché pensano che un figlio piccolo possa aiutarli a staccare quel biglietto per riuscire ad andare in un altro paese. Non è raro incontrare, infatti, donne incinte. A Vasilika ce ne sono attualmente 18, mentre i neonati sono 5. A Kalahori le gestanti sono 8, e i nuovi nati 4. All’ingresso in una piccola tenda bianca un gruppo di neomamme si sta riunendo: alcune ragazze di un’organizzazione umanitaria stanno dando dei consigli sull’allattamento al seno e le misure igieniche da seguire. Scopriamo che sono di una onlus italiana, Mam Beyond borders, che si occupa dell’assistenza sanitaria di mamme e bambini nei campi profughi. “Cerchiamo di aiutare le donne incinte e le mamme, che sono già molto provate perché hanno affrontato il viaggio, e che qui devono occuparsi dei bambini, anche molto piccoli. Lo facciamo attraverso un gruppo di ostetriche e di volontari – spiega Greta Schiavon, co-presidente dell’associazione insieme a Ludovica Tosolini. - In particolare, seguiamo il percorso di queste donne e diamo consigli: incoraggiamo l’allattamento al seno perché il latte materno aiuta i piccoli a sviluppare anticorpi e il sistema immunitario. In questi centri le condizioni igieniche sono precarie, quindi c’è sempre il rischio che possano sviluppare infezioni”.
Con Mam Beyond borders sta operando nel campo anche un’altra onlus, Firdaus. Insieme hanno acquistato degli estintori. La presidente di Firdaus, Lisa Bosia, è anche una deputata in Canton Ticino. E’ qui, mi spiega, anche per un monitoraggio sul numero dei profughi che hanno parenti in Svizzera. “Saranno il due per cento di tutti i profughi ospitati nei campi, non più di duemila - sottolinea - Vorrei organizzare un corridoio umanitario con il mio paese. Inoltre, qui monitoriamo le condizioni delle persone e cerchiamo di intercettarne le esigenze. Abbiamo comprato gli estintori perché c’è un rischio reale di incendi, ma stiamo cercando di capire, per esempio come aiutare le persone disabili che hanno difficoltà a lavarsi”. Nei campi i bagni, quasi tutti chimici, sono pochi per il numero delle persone ospitate. E spesso in condizioni pessime. All’aperto, invece, ci sono i lavandini dove le persone provvedono anche a lavare i vestiti. L’altra esigenza, continua Bosia, è quella di assicurare una qualche forma di educazione ai bambini, che da quando sono arrivati in Grecia non vanno a scuola. Alcuni di loro non ci sono mai andati, come i piccoli siriani. E così nello spazio posteriore della fabbrica hanno creato lo spazio bimbi: la parete recita “happy time”. C’è anche una lavagna, dove si fanno le lezioni. “Qualche giorno fa uno dei profughi ospitati è venuto qui a insegnare – racconta – in Siria faceva il maestro. E’ stato bello anche per lui, anziché stare in tenda tutto il giorno ci ha detto che continuerò a venire qui per i bambini”.
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Gabriella Calabrò, in arte Gabo, è qui, invece, per far sorridere i piccoli profughi. E’ una clown italo-argentina, è stata in diversi campi, da Calais a Idomeni. Ha deciso di partire dall’Italia perché “davanti a tutto questo non si può stare a guardare - dice-; ho iniziato tre anni fa dopo la tragedia del 3 ottobre a Lampedusa e non ho mai smesso. Mi basta anche solo regalare un sorriso a questi bambini, che sono costretti a vivere in questi magazzini, in condizioni pessime, senza niente”. E’ quasi il tramonto quando ci avviciniamo all’ultimo campo, sempre nella zona industriale di Salonicco. La luce calda tinge tutto di rosso: a vederla così questa distesa di tende ricorda le immagini dei campi profughi in mezzo al deserto. E, invece, siamo in Europa. All’entrata ci negano l’accesso. Il nostro viaggio termina così davanti al grande edificio centrale ricoperto da un coloratissimo murales: c’è scritto One Love.