C'è solo la pensione minima nel futuro dei detenuti che lavorano
ROMA – In Italia cresce il numero di detenuti che lavorano, ma per molti di loro i contributi pensionistici sono pochi e il rischio di dover tirare avanti con una pensione sociale una volta scontata la pena non è poi così remoto. A lanciare l’allarme è Emilio Santoro, professore di filosofia e sociologia del diritto presso l’Università di Firenze, commentando i dati della Relazione sullo svolgimento da parte dei detenuti di attività lavorative presentata a inizio anno dal ministro della Giustizia, Andrea Orlando. Al 30 giugno 2015 (sono gli ultimi dati disponibili) sono 14.570 i detenuti che lavorano, di cui circa 10 mila impiegati per la gestione quotidiana degli istituti di pena. Un dato in costante crescita: nello stesso mese del 2014 erano circa 14 mila, mentre erano 13,7 mila nel 2013. In crescita anche il budget assegnato per la remunerazione dei detenuti impiegati nella gestione quotidiana: nel 2015 è stato di 60 milioni di euro circa, contro i 55 milioni del 2014 e i 49,6 milioni del 2013. Tuttavia, spiega la relazione si tratta di cifre “ancora insufficienti” che incidono “negativamente sulla qualità della vita all’interno dei penitenziari”.
Risorse scarse che incidono sia sulla retribuzione oraria, sia sulle ore effettive di lavoro per ogni detenuto. E di mezzo ci finisce anche la parte contributiva. “Quasi nessun detenuto lavora a tempo pieno – spiega Santoro -, lavora sempre per mezza giornata e per un mese l’anno. Per avere un anno di contributi pensionistici, a questi ritmi, un detenuto deve lavorare per cinque o sei anni. Al di là della retribuzione del lavoro in carcere, questo è un problema enorme”. Per Santoro, gli effetti di questa lentezza nell’accumulo di contributi pensionistici andranno a ricadere su quanti, una volta scontata la pena, si troveranno in età pensionabile all’esterno del carcere. “Sono persone che dovranno vivere con la pensione sociale – avverte Santoro -. Con questi ritmi gli anni di contributi necessari non ce li avranno mai. In prospettiva questo è il problema più grande. Basta aver fatto anche sette anni di carcere e dal punto di vista contributivo, se hai lavorato, te ne contano uno”.
Nulla di nuovo, invece, sul tema delle retribuzioni calcolate ancora sugli anni 90. L’effetto emulativo atteso dopo la Torreggiani in realtà non c’è stato. Già nel 2014 lo stesso Santoro aveva raccontato a Redattore sociale il problema del lavoro sottopagato dei detenuti in carcere: la retribuzione prevista, infatti, è calcolata all’85 per cento di quella dei contratti collettivi, ma il riferimento per questo calcolo è il 1993. Tra i detenuti non mancano quelli che si appellano alla giustizia ordinaria che quasi sempre impone allo Stato di riparare il torto. Tuttavia, i ricorsi sono pochi e avvengono per lo più tra quanti hanno già lasciato il carcere. E nessuno, ad oggi, si è appellato alla Corte europea che nel 2013 ha stabilito che il detenuto in esecuzione di pena deve essere pagato come il lavoratore libero, altrimenti è lavoro forzato. “I detenuti hanno paura di fare il ricorso quando sono ancora in carcere, di solito li fanno appena escono – spiega Santoro -. Man mano che escono fanno il ricorso, ma se hanno scontato pene lunghe riescono a recuperare soltanto gli ultimi cinque anni”. L’adeguamento della retribuzione, infatti, non c’è ancora. “Le mercedi sono ormai fissate a circa 20 anni fa e da allora non sono mai state riviste”. Diversa la situazione per quanti lavorano al di fuori dei penitenziari. “In questo caso valgono i contratti collettivi nazionali – aggiunge Santoro -, ma si tratta di tanti piccoli progetti. Alcuni funzionano molto bene, ma coinvolgono un numero di detenuti irrisorio. In carcere a rotazione, lavorano quasi tutti i definitivi”.
Il tema del lavoro per i detenuti è stato anche al centro di uno dei tavoli degli Stati generali dell’esecuzione penale e non sono mancate le proposte. Per Santoro sono due le idee che potrebbero funzionare. La prima riguarda il superamento della legge Smuraglia “che prevede sgravi per le aziende che assumono detenuti – specifica Santoro -. Una legge che si è rivelata inefficace con costi enormi e risultati modesti”. L’idea prende spunto da un modello catalano e punta a “trasformare questi fondi in soldi per una sorta di agenzia statale di lavoro interinale – spiega Santoro - in cui l’agenzia assume i detenuti e poi li affida ai datori di lavoro. In Catalogna funziona bene”. L’altra ipotesi è quella di garantire i contributi, ma retribuire con uno sconto di pena. Una soluzione che potrebbe rispondere anche al recente problema del ritorno della crescita nella popolazione penitenziaria. “Da un lato pago i contributi – chiarisce Santoro -, e questo evita il danno contributivo e dà una sicurezza a queste persone, dall’altra invece di retribuire in soldi, do una riduzione di pena. Dal primo gennaio non abbiamo più la liberazione anticipata speciale che era di 30 giorni in più ogni semestre ed era stata fatta nel periodo della Torreggiani per diminuire il sovraffollamento penitenziario. Ora il numero dei detenuti è tornato ad aumentare di 500 detenuti al mese”. Una soluzione, quest’ultima, che ha già riscosso approvazione nel resto d’Europa, conclude Santoro. “Molti stati si sono orientati verso l’idea che chi lavora ottiene una riduzione di pena. Questo è una prassi diffusa a livello europeo”.(ga)