Caporalato: universitari e richiedenti asilo, i braccianti che non ti aspetti
Alcuni migranti presenti al Gran Ghetto di Foggia |
RIGNANO GARGANICO (Foggia) - “Se il povero o lo schiavo aspetta che sia il padrone a cambiare la sua situazione, non otterrà mai nulla”. Akhet ha 22 anni, viene dalla Costa D’Avorio e passa l’estate al Gran Ghetto di Foggia, la baraccopoli che dà ospitalità a quasi 2.500 braccianti impegnati nei lavori agricoli della regione della Capitanata.
Akhet lavora nella raccolta dei pomodori, anche se non ne avrebbe bisogno. Alla fine della giornata nei campi tira fuori i libri per preparare il test di ammissione all’Università di Medicina, e molti pomeriggi li passa a Radio Ghetto, l’emittente che dall’interno dello slum dà voce a storie, dibattiti e musica scelti dagli stessi braccianti. Akhet (come molti altri) parla perfettamente italiano e francese, oltre ad almeno due lingue africane. E ha deciso di impiegare la sua estate al Ghetto per rendersi conto sulla propria pelle di cosa significhi davvero la vita di un bracciante sfruttato. “Qui alla radio – spiega – e anche in altre assemblee con associazioni e gruppi attivi con noi braccianti, si è spesso parlato di come fare per organizzare qualche forma di protesta. Io invece credo soprattutto nella necessità di educazione, perché una rivolta organizzata dall’alto o dall’esterno non può avere successo, se prima non si formano le coscienze”.
- La situazione dei braccianti che lavorano nelle campagne del Sud Italia non è certo omogenea. Ci sono persone di ogni tipo tra le migliaia di giovani africani che vivono al ghetto durante la stagione. La mattina escono con gli occhi impastati dalle poche ore di sonno e dalla polvere, per salire sui furgoni dei caporali, vestiti di abiti da lavoro pieni di macchie rosse di pomodoro. Il pomeriggio, al ritorno, si organizzano per cucinare, fare il bucato e la doccia nelle precarie condizioni del ghetto, che conta solo tre punti di approvvigionamento di acqua non potabile e una dozzina di grandi cisterne per quella potabile.
La sera, dopo il lavoro, gli abiti sono tutti puliti, per quanto possibile, e i look perfino ricercati, chi con il berretto in testa, chi con una maglietta più o meno alla moda, chi con t-shirt sponsorizzate dalle più varie associazioni, che rivelano la provenienza dai cassoni di abiti dismessi sparsi per le nostre città ma vengono indossate solo dopo essere state lavate il più possibile, stando accovacciati per terra a torso nudo, sprimacciandole e risciacquandole dentro secchi di fortuna. Al Ghetto ci sono negozietti improvvisati di abbigliamento, bancarelle di jeans o di scarpe, e quasi ogni sera un uomo che passa vendendo occhiali da sole, come in spiaggia.
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Tantissimi braccianti sono in regola con i documenti, magari hanno perso il lavoro da poco, o ne hanno di precari nelle città in cui vivono stabilmente. Altri sono richiedenti asilo in attesa di una risposta dalla commissione che deciderà sul loro futuro, negando o concedendo il permesso di soggiorno per motivi umanitari; vivono in alberghi o strutture di accoglienza, e a volte i gestori passano qualche pomeriggio al campo per raccogliere le loro firme, per poter così ricevere il denaro procapite spettante dallo Stato anche nei giorni in cui i ragazzi sono assenti dalla struttura.
C’è perfino chi al ghetto ci viene in vacanza, qualche giorno per salutare gli amici con cui ha lavorato gli anni precedenti, per stare in compagnia o mangiare a basso prezzo nella dozzina di ristorantini che sorgono nel campo, anche loro in baracche più o meno arredate e decorate, con tappeti per terra e controsoffitti di tessuti e vecchie lenzuola, per allontanare il caldo e la polvere.
Ci sono giovani rifugiati dal Mali o dalla Guinea, scappati per motivi politici lasciando a metà gli studi. Sono loro ad avere più coscienza della propria condizione. Sono le loro voci a cercare di trasmettere consapevolezza, e voglia di lottare, anche a chi invece non ha mai potuto studiare, a chi fin da piccolo ha imparato a vivere e camparsi la vita per strada e nei campi, lavorando in miniera come K., o nei cantieri con i cinesi, come M.
“I caporali fanno con noi quello che ha fatto l’Europa coloniale con i popoli africani: divide et impera”, spiega A, uno dei più attivi anche ai microfoni della radio. “Ma ora tocca a noi unirci e risvegliarci. E dopo essere passato da Agadez, dalla Libia e dal barcone nel Mediterraneo, penso di poter dire forte che io non ho paura”. (Giulia Bondi)
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