Carcere, “investire in misure alternative aumenta la sicurezza sociale”
BOLOGNA – “Investire sulle misure alternative e di comunità è fondamentale per avere buoni risultati in termini di sicurezza sociale”. Lo ha detto Sonia Specchia, dirigente della Direzione generale del Dipartimento della giustizia minorile e di comunità intervenendo al seminario “Carcere e misure di comunità, un’informazione deontologicamente corretta” organizzato dall’Ordine Giornalisti e Fondazione Giornalisti dell’Emilia-Romagna in occasione del primo Festival della comunicazione sul carcere e sulle pene promosso dalla Conferenza nazionale volontariato e giustizia a Bologna. Lo dimostrano le basse percentuali di detenuti in misura alternativa (circa 34 mila al 28 febbraio 2017) che commettono nuovi reati (lo 0,74%) e di andamenti negativi della misura stessa (il 3%). “La pena deve rispondere ai principi indicati dalla nostra Costituzione, dalle raccomandazioni del Consiglio d’Europa, dall’Onu e dalle Regole di Tokyo ovvero il reinserimento sociale e la riabilitazione e le misure alternative e di comunità rispondono meglio a questo obiettivo”, ha aggiunto Specchia. In Italia i detenuti sono 56 mila (al 28 febbraio 2017), le persone in misura alternativa e di comunità sono 34 mila, con un aumento esponenziale in particolare dell’istituto della messa alla prova (9 mila nel 2015, nei primi due mesi del 2017 sono già 9.460).
Un aumento che, nel 2015, ha portato a una riorganizzazione delle istituzioni che si occupano di giustizia minorile e di comunità. “Superata la riorganizzazione, serve rafforzare la rete territoriali con enti locali e volontariato e una corretta informazione è importante per avere una società più accogliente – precisa Specchia – Difficilmente l’amministrazione penitenziaria riuscirà a reinserire i soggetti in misura alternativa o di comunità in una società che pensa che la soluzione migliore resti comunque il carcere”. Ecco perché è importante far capire che, “le misure di comunità non sono benefici premiali concessi a chi si comporta bene, ma pene dal contenuto sanzionatorio tanto quanto quelle eseguite in carcere – aggiunge – L’informazione deve essere corretta e non deve enfatizzare i fallimenti: oggi invece quello che emerge sono i 3 che non vanno a buon fine e non i 97 che ce la fanno”.
Tra le misure alternative, un peso estremamente importante ce l’hanno i lavori di pubblica utilità che, fino al 2010, erano riservati a chi non poteva permettersi di pagare sanzioni pecuniarie e in poche altre eccezioni. Nel 2010 c’è stata l’esplosione di questa misura in seguito a una riforma del Codice della strada che l’ha prevista per la guida in stato d’ebbrezza o sotto l’effetto di sostanze stupefacenti. “Il successo di questa misura va ricondotto al fatto che non colpiva persone ‘candidate’ al carcere ma persone integrate, come tutti noi, che commettono un’infrazione – ha detto Marco Bouchard, magistrato, giudice penale a Firenze, esperto di lavori di pubblica utilità e messa alla prova nel suo intervento all’incontro di Bologna – Persone che, nella maggior parte, hanno mantenuto la fidelizzazione con l’associazione di volontariato in cui hanno prestato la loro attività anche dopo aver espiato la pena”. Il grande colpo è arrivato con la sospensione del processo e la messa alla prova, perché a quel punto non c’erano in gioco solo contravvenzioni ma delitti di una certa consistenza (punibili con pene fino a 4 anni). “I lavori di pubblica utilità richiedono, come la messa alla prova, il consenso dell’imputato, prevedono un programma realizzato con il suo coinvolgimento, attività riparative e di volontariato e la possibilità di incontri tra accusato e persona offesa”, ha aggiunto Bouchard. Altri casi di lavori di pubblica utilità sono quellio previsti dal giudice di pace, che non hanno avuto un grande successo, e quelli previsti dalla legge sulla tossicodipendenza (in caso di possesso di modica quantià si può convertire la sanzione in lavori di pubblica utilità ma per non più di 2 volte). I lavori di pubblica utilità e la messa alla prova hanno in comune la necessità del consenso dell’imputato, il fatto che un giorno di detenzione equivale a due ore di lavoro e la funzione che non è quella di riparare la collettività ma reinserire la persona.
“La mia speranza è che i lavori di pubblica utilità possano costituire l’occasione per il nostro Paese di passare da una concezione di pena intesa come sofferenza e controllo passivo a un’azione positiva e responsabilizzante – ha spiegato Bouchard – Nella messa alla prova cambia la struttura della pena, non soffrire ma agire, e il tempo della pena, da vuoto e propizio”. Inoltre, c’è la possibilità di introdurre l’uso della parola per i protagonisti dei fatti, autori e vittime, “ci sono diversi modi di farlo: c’è quello descritto dalla Direttiva Ue 2012/29 che prevede un’impronta curativa verso le vittime e riparativa e c’è un modo puramente violento. È sotto gli occhi di tutti il tentativo di richiamare l’uso della forza in risposta al crimine usando un’idea di legittima difesa fondata sulla sproporzione che non esiste. Per vincere la deriva sull’uso della forza in risposta al crimine bisogna agire responsabilmente, puntare sulle misure di comunità e sulla parola, l’unico strumento per rapporti sani”. (lp)