5 novembre 2013 ore: 15:47
Giustizia

Carcere, una realtà "pensata" al maschile: le poche donne stanno male

Le donne sono solamente il 4,3% dei detenuti presenti nelle carceri (poco meno di 3 mila) ma l'essere una sparuta minoranza non le avvantaggia: secondo un rapporto del Cnb la detenzione ha un impatto sproporzionato sulla loro salute e benessere. E per chi ha figli è ancora peggio

ROMA - Ancora oggi, nonostante la parità legislativa di diritti tra i sessi, il maschile funge da universale, sta per “umano”, schiacciando le specificità del femminile. Questo vale in tutti gli ambiti, dal linguaggio alla medicina, e il mondo carcerario non fa eccezione. Su quasi 65 mila detenuti reclusi in Italia, le donne rappresentano soltanto il 4,3%: sono in totale 2821, di cui 1102, cioè il 39%, sono straniere (fonte: dati Dipartimento Amministrazione Penitenziaria del 30-9-2013). In carcere, realtà pensata per e modellata sui detenuti uomini, essere una sparuta minoranza non avvantaggia affatto le detenute, come sottolinea il rapporto “Salute dentro le mura” pubblicato l'11 ottobre dal Comitato nazionale di bioetica.

Già nel 2009 l'Oms Europa e l'Ufficio delle Nazioni Unite contro la droga e il crimine (Unodc) avevano pubblicato un documento che, sin dal titolo, ammetteva una situazione di disparità: “La salute delle donne in carcere: correggere la mancanza di equità di genere”. Questo documento si concludeva auspicando la creazione di un  sistema di giustizia penale sensibile al genere, che tenesse in considerazione “specifici bisogni e circostanze di vita del genere femminile”. Il rapporto del Comitato sottolinea una situazione che negli ultimi 4 anni non è cambiata per nulla: le donne sono spesso condannate per reati minori, rispetto ai quali la carcerazione “ha un impatto sproprozionato sulla loro salute (e su quella dei figli, se madri)”. Spesso si trovano in sezioni femminili - in Italia se ne contano 64 - di carceri maschili, organizzati su bisogni maschili, mentre  penitenziari femminili sono presenti solo a Trani, Pozzuoli, Empoli, Roma Rebibbia, Genova Pontedecimo, Venezia Giudecca, più un unico centro clinico femminile a Pisa. L'unico problema che le detenute non hanno è il sovraffolamento, ma c'è senza dubbio minore attenzione al funzionamento delle sezioni femminili, e ci sono meno offerte per i trattamenti penitenziari.

"Prima le donne e i bambini", scriveva Elena Gianini Belotti nel 1980 per sottolineare quanto e come le donne fossero considerati soggetti deboli, assimilabili ai minori. Questo tipo di considerazione è valida ancor oggi: secondo il rapporto del Comitato di bioetica, infatti, il trattamento delle donne “è collegato alla concezione della trasgressione femminile”, per cui il reato “tende a essere visto come 'errore' prima che come trasgressione”, il che provoca uno “scivolamento verso il paternalismo educativo/correzionale”. Quindi, meno durezza, ma anche rischio di maggiore arbitrio e di minori diritti.

La sofferenza causata dall'essere rinchiuse sembra avere un impatto più negativo sulle donne, sia perché lo “stigma della carcerazione” è ancora oggi più pesante, che perché “la padronanza sui tempi e soprattutto sugli spazi della vita quotidiana è una dimensione rilevante per il benessere delle donne”. Il fatto, poi, che le donne abbiamo in genere reti sociali e affettive più estese, si traduce spesso, invece che in un elemento di sostegno, in negatività, “perché le donne vivono più acutamente la separazione” e perché “poco si fa in carcere per facilitare il mantenimento e l'assiduità dei contatti con l'esterno”.

C'è poi la questione della presenza dei bambini con meno di 3 anni che vivono in carcere con le loro madri. A fine giugno se ne contavano 52, per la maggioranza figli di nomadi, con tutti i danni e i rischi che derivano dal vivere in cattività per bimbi così piccoli: malattie, traumi psicologici, ritardi nello sviluppo delle capacità linguistiche, etc. Secondo la legge, le madri con figli al di sotto dei 3 anni possono usufruire degli arresti domiciliari, ma questa misura decade se le detenute non hanno residenza o se sono recidive. In teoria, in base alla legge 62/2011, entro il prossimo gennaio i bambini dovrebbero scomparire dalle prigioni, ed essere trasferiti insieme alle loro madri in appositi istituti penitenziari più vivibili, gli Icam (Istituti a custodia attenuata per detenute madri, ndr), dove vivere con loro fino ai 6 anni. E' però assai probabile che ciò non avvenga, perché al momento nel nostro Paese esistono solo due Icam, a Milano, dove possono essere ospitate al massimo 12 mamme, a Genova, e un terzo è in costruzione nel Lazio. (Elisa Manici)

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