Caregiver nell'era del Covid: in ospedale o a casa, da soli non si può
ROMA – L'attenzione manca da sempre, ma con la pandemia la situazione è diventata “ingestibile”: parliamo di caregiver in ospedale, al fianco di bambini con gravi disabilità, costretti a frequenti visite di controllo, a day-hospital e a volte a lunghi ricoveri. La denuncia arriva da Elena Abbate, 43 anni, mamma di due bambine, Matilde di 11 anni e Margherita di 5, con la stessa mutazione genetica rara, che le priva di qualsiasi autonomia: “Sono come bamboline – ci spiega – Ipotoniche, hanno la peg di supporto per la nutrizione, sono ipovedenti, naturalmente non camminano: bisogna fare tutto per loro”. Due anni fa ci aveva raccontato la fatica dei ricoveri, la stanchezza delle lunghe degenze, dove una volta accanto a una, una volta accanto all'altra, a volte anche con entrambe le bambine ricoverate, soffriva “una condizione di completa solitudine, a volte per mesi interi”, a causa della mancanza di attenzioni e piccoli servizi pensati per gli accompagnatori.” Quando sono 'ricoverata', normalmente non ricevo alcun tipo di supporto – ci riferiva allora -: per dormire una poltrona o al massimo una brandina, il pasto occorre chiederlo e pagarlo, ma non sempre lo portano in stanza. E poi manca uno spazio comune per confrontarsi con altri genitori, magari un angolo bar per prendere un caffè in compagnia”.
Il marito, però, poteva almeno raggiungerla, seppur soltanto in certi orari previsti e compatibilmente con gli impegni lavorativi. Ora, con la pandemia e le regole da questa imposte, la situazione è decisamente peggiorata: la compresenza non è più possibile, le visite neanche: a un solo genitore è consentito di stare accanto al piccolo paziente e, nei casi in cui le regole sono più rigide, l'accompagnatore non può uscire dal reparto neanche per un caffè. Per questo, “abbiamo cercato il più possibile di evitare ricoveri, da quando è scoppiata la pandemia – ci racconta oggi – Perché restare da soli, chiusi in un reparto d'ospedale, come fossimo in carcere, per tanti giorni, ci avrebbe ulteriormente destabilizzati. A luglio dello scorso anno, quando la situazione era più sostenibile, abbiamo affrontato un lungo ricovero in un grande ospedale: con il Green Pass, potevo almeno uscire dal reparto per prendere un caffè al bar, ma posso testimoniare che in alcuni reparti neanche questa breve uscita era consentita. Conosco mamme che sono rimaste in camera con i bambini per settimane e settimane senza mai mettere il naso fuori”.
Anche le visite e i day-hospital, però, sono diventati una vera e propria impresa: “Avendo due bimbe con gravi disabilità, è tutto difficile e complesso e ora anche le visite di routine sono diventate ingestibili, perché non possiamo entrare insieme. Per noi è una situazione anomala – racconta – Adesso, per esempio, Matilde deve fare una visita ortopedica importante, che forse la porterà all'operazione più difficile della sua vita e potrà entrare solo uno di noi: dopo questa visita, sulla base di quanto ci verrà detto, dovremo decidere insieme, mio marito ed io, se farle applicare delle barre nella schiena oppure no. Ma quando un medico parla a un genitore, esponendo i benefici e le criticità di un'operazione del genere, non può un genitore da solo apprendere queste notizie, perché ci sono momenti in cui si vacilla, si è stanchi, si capisce di meno. Due genitori insieme fanno la differenza, in situazioni come questa. Quindi trovo assurdo che in casi complessi come i nostri , con deficit così importanti, si debba scegliere quale genitore debba entrare. La legge deve valutare chi ha davanti: in un certo senso e in determinati contesti, non può essere uguale per tutti, perché i pazienti fragili non possono essere messi sullo stesso piano degli altri. Un 'caregiver h24' come noi, stanco, ha bisogno di avere una spalla vicino che lo aiuti, perché spesso deve ascoltare parole che non sono facili da mandar giù. E non mi vengano a dire che queste regole sono fatte per proteggersi: servono solo a metterci ansia e paura, pur di non affrontare alcune situazioni da soli, li rinviamo e rinunciamo addirittura, a scapito dei nostri cari. Noi dobbiamo essere appoggiati e sostenuti – ribadisce Elena - La nostra proposta è di mettere in moto un meccanismo tale per cui sia rivisto il modo di gestire i pazienti fragili, che devono essere abbracciati con regole più morbide”.
Una storia, tante storie
La storia di Elena è quella di tanti che, come lei, hanno dovuto fronteggiare l'emergenza sanitaria, continuando a fronteggiare ogni giorno le necessità e il bisogno di cura di figli con gravi disabilità. Così, alla sua sua voce si unisce quella di altri, che vivono una situazione simile alla sua e sanno bene cosa questo significhi. Come Lara, che racconta: “Sono stata in una situazione così l'anno scorso. Anche noi abbiamo dovuto decidere per un intervento neurochirurgo alla nostra bambina in pochi minuti: io in ospedale e mio marito a casa per telefono. Poi due interventi in pochi mesi: io da sola in stanza con lei per un mese e altri 10 giorni senza poter avere il cambio con mio marito, nemmeno un'ora al giorno, senza uscire dalla stanza. Per una bimba come la nostra, che ha subito il trauma dell'abbandono, non poter vedere il papà per tutto quel tempo è stato drammatico: andava in crisi e io con lei”.
Quei ricoveri, in cui si possono ricevere solo panni
E Sara Giuffrida, che vive a Bergamo, ci racconta di Marco, il suo bambino di sei anni e mezzo con una grave disabilità, dovuta alla sindrome di Angelman, che comporta un serio deficit cognitivo e motorio e richiede un'assistenza continua: “Durante la pandemia ha affrontato diversi ricoveri – racconta Sara a Redattore Sociale - Ci siamo trovasti in famiglia a dover fronteggiare questa situazione nuova: a causa delle restrizioni e delle procedure dovute al Covid, può presenziare un solo genitore. Nel ricovero riabilitativo a dicembre, abbiamo fatto un tampone all'ingresso in struttura: eravamo io e lui da soli, lui con la sedia a rotella, io con le valigie, per un ricovero di dieci giorni. Fatto il tampone, siamo stati in isolamento per 48 ore: entravano solo i medici per il tempo delle visite e degli esami, noi non potevamo uscire. Dopo l'esito negativo, ci è stato consentito di muoverci un po' in corridoio, ma non abbiamo mai potuto ricevere visite dall'esterno. È la prassi per tutti i ricoveri, ne abbiamo avuti anche altri durante la pandemia: una volta fatto il tampone non si esce e non si incontra nessuno. Io e e lui da soli. L'ultimo ricovero è stato a settembre, in terapia intensiva perché Marco aveva un grave deficit respiratorio. Tampone il primo giorno, poi siamo stati in isolamento per quasi due settimane. Potevo ricevere solo i panni che mio marito consegnava a un infermiere, ma io non potevo uscire dalla stanza. Anche per andare al bagno dovevo chiamare un infermiere, perché Marco non può stare solo neanche un attimo. Questa è la situazione, non solo la mia ma di tutti coloro che in questo periodo affrontano ricoveri di bambini o anche di adulti che hanno deficit cognitivi: non è prevista la possibilità di far entrare nelle strutture nessuno, per dare un sostegno che è necessario. I pasti sono a pagamento, puoi ordinarli e consumarli in stanza. Sempre soli, sempre nella stanza. E' una condizione difficile e faticosa, per la quale ci vorrebbe una maggiore comprensione e un sostegno che, finora, proprio non c'è”.
A raccontare efficacemente questa condizione "difficile e faticosa" del caregiver familiare e la sua "simbiosi" con la persona di cui si prende cura, è Marina Cometto, che si prende cura di Claudia da quando sua figlia è nata, 47 anni fa. Caregiver a tempo pieno, ha imparato a conoscere ogni manifestazione, bisogno e complicazione di quella sindrome di Rett che ha colpito sua figlia, rendendola gravemente disabile e del tutto non autosufficiente. E' con la consapevolezza, la dedizione e anche l'angoscia del suo essere caregiver che ha indirizzato, qualche giorno fa, una lettera all'assessore alla Sanità della regione Piemonte Luigi Genesio Icardi, per assicurarsi che, in caso sua figlia Claudia avesse bisogno, per qualche motivo, di essere ricoverata, nessuno le impedisca di stare insieme a lei. Così come, d'altra parte, ha finora potuto fare: “Sono sempre entrata con mia figlia in tutti gli ospedali, sia per visite ambulatoriali o in pronto soccorso e anche durante i ricoveri sono sempre rimasta con lei giorno e notte. Ora però, con il Covid, temo ci possano essere problemi in caso dovessimo recarci al pronto soccorso per un’emergenza. Affidare Claudia a chi non conosce le tante necessità e particolarità della sua malattia rara, complessa e progressiva, sarebbe come offrirla alle braccia della morte. E questo come mamma non posso accettarlo”. Per far meglio comprendere quanto vitale sia la sua presenza per la figlia, tanto più in caso di malattia, Cometto spiega che Claudia è “una donna di 47 anni con pluridisabilità; per età anagrafica donna, ma in concreto una bambina che non ha alcuna autosufficienza e la cui vita dipende principalmente da me”. E dipende, in particolare, da quella che non esita a definire “simbiosi”: una comunicazione che nessun altro potrà mai costruire con Claudia, tanto meno in una condizione di emergenza. La vita di Claudia dipende “dal mio conoscerla in ogni particolare, dal comprendere ogni suo respiro e capire la differenza tra desaturazione importante o semplice agitazione che influisce sul respiro, dal saper capire se un lamento è dovuto ad un male di pancia per motivi legati ai suoi problemi intestinali oppure da quelli ginecologici, se rifiuta il cibo perché non gradisce il gusto o perché non si sente bene. Da come strizza gli occhi, capisco se ha dolore da qualche parte, oppure se sono gli occhi a procurarle fastidio, bruciore o dolore. Insomma siamo in simbiosi , per molti una parola negativa per mia figlia vuol dire vita”.
Isolamento significa "regressioni e unghie nella pelle"
E anche quando non c'è il ricovero, quando il Covid allenta la sua morsa e colpisce meno gravemente, questo rappresenta comunque una minaccia per il delicato equilibrio di tante persone con disabilità e dei loro caregiver. Contagio, isolamento, regole sono parole con un significato pesantissimo, nelle loro complicate esistente. “Quelle unghie nella pelle e le mani che ti strappano capelli e vestiti e le lacrime trattenute e le urla e i pugni per un nonnulla”: in pochi tratti, ecco raccontato cosa accade quando il covid bussa alla casa di una persone con disabilità. Solo in pochi tratti può raccontarlo Elena Improta, da 14 giorni isolata con suo figlio Mario, 32 anni e una grave tetraparesi spastica con pesanti conseguenze anche sul piano cognitivo. “Due settimane fa, siamo risultati entrambi positivi. Ora io mi sono negativizzata, Mario no, quindi siamo ancora qui, io e lui da soli, isolati e senza assistenza”.
Sì è vero, l'isolamento è duro per tutti, ma per chi vive da solo con una persona gravemente disabile, la condizione è drammatica. “Lo sguardo, dopo due settimane d'isolamento, è perso in una moltitudine di domande senza voce e senza risposte, come in un carcere. Puoi solo aspettare la sentenza: positivo o negativo , carcerato o libero – racconta Improta - Vivere una condizione di disabilità ad alto carico assistenziale, problemi comportamentali e relazionali, assenza di comunicazione verbale, stati altalenanti di angoscia che sfociano in rabbia, richiede amore incondizionato e tanta pazienza”.
E' grazie a questo amore e questa pazienza che i problemi vengono contenuti, le competenze stimolate, l'autonomia incoraggiata: Elena Improta ha lasciato Roma e si è trasferita a Orbetello, per “cucire” un cohousing intorno al figlio Mario, in cui valorizzare le sue capacità, garantire una rete di supporto che possa entrare in campo adesso, ma soprattutto quando Elena non ci sarà più e Mario resterà solo. “Abbiamo costruito dei processi importanti di autonomia e di cura, che ora si stanno sgretolando. Siamo soli, senza assistenza, senza attività, senza aiuto. Si ok, siamo vivi , non siamo in ospedale né in terapia intensiva, ma in un appartamento sulla splendida Laguna di Orbetello. Tuttavia è pazzesca la regressione in pochi giorni e le stereotipie che si moltiplicano e quelle unghie nella pelle e le mani che ti strappano capelli e vestiti e le lacrime trattenute e le urla e i pugni per un nonnulla – ci racconta Improta - Ci chiediamo allora: ha senso l’isolamento per le persone disabili con queste particolari fragilità, dopo dieci giorni senza sintomi? Ha senso privare le famiglie di assistenza?”.
Sono domande che, a due anni dall'inizio della pandemia, interrogano con drammaticità le istituzioni, che “nel definire regole, misure e decreti, non prendono in considerazione seriamente le disabilità e i caregiver e non si rendono conto di cosa significhi, per noi, vivere settimane in isolamento. E' una situazione talmente difficile e drammatica, che molti familiari di persone con disabilità stanno scegliendo di non segnalare i sintomi e non fare il tampone, ma isolarsi semplicemente, fino alla scomparsa dei sintomi, per non rischiare periodi di restare prigionieri troppo a lungo, privando i loro figli dei supporti e dei servizi necessari e indispensabili per non farli regredire. Chiediamo di essere considerati: non credo che chi stabilisce le regole abbia idea di ciò che significhi l'isolamento e l'interruzione dell'assistenza per noi. Forse lo sguardo di Mario e il mio possono rendere l'idea, insieme alle unghie nella pelle, ai capelli strappati e alle urla continue, che mi impediscono anche di continuare a parlare e raccontare”.
Urla in sottofondo, il tempo è scaduto. “Devo occuparmi di Mario”.