Cocaina, “mi facevo per non pensare. Un giorno non mi sono più riconosciuta”
BOLOGNA – “La prima volta che ho fatto uso di cocaina avevo 19 anni, ero in albergo. Avrei voluto che mio figlio più grande, che adesso ha 6 anni, non avesse mai conosciuto la versione tossica di me. Purtroppo, all’inizio la sostanza ti prende e ti piace, sennò non ci sarebbe tanta gente che ne fa uso. Mi sentivo importante, avevo accesso a un sacco di ragazze e locali, perché poi mi sono anche messo a venderla. Negli ultimi 3-4 anni, invece, posso descrivere l’utilizzo come un incubo vero e proprio. Quando ne facevo uso volevo stare solo, mi rinchiudevo nelle mie paranoie che, appena finiva la sostanza, aumentavano e mi spingevano a cercarne altra. Avevo già una famiglia e i problemi, anziché diminuire, aumentavano”. Luca è stato uno dei protagonisti del webinar “Oltre lo specchio. La cocaina tra mito e realtà”, organizzato dalla cooperativa Open Group. Oltre a Luca, c’erano anche le voci di Annalisa e Masa (nome di fantasia su richiesta dell’interessato): tre storie diverse che mostrano gli effetti che la cocaina può avere sulla vita delle persone. Persone che hanno preso coscienza del problema e deciso di affrontare un percorso terapeutico, prima rivolgendosi ai servizi dell’Ausl di Bologna, poi al gruppo Time Out della comunità La Rupe di Open Group, comunità d’accoglienza che si occupa delle persone con problemi di dipendenza.
“La prima volta che l’ho provata ero terrorizzata, ma mi sono lasciata convincere – racconta Annalisa –. Perché l’ho fatto? Non lo so. Dopo 22 anni di lavoro dipendente ho fatto una scelta imprenditoriale. Ero già in una fase depressiva che non avevo riconosciuto. Poi ho comprato una libreria, ho avuto un problema familiare, e sono crollata. Mi sono rifugiata dentro una cosa che mi aiutava a non pensare. Quando mi facevo non pensavo, riuscivo a sopportare un peso che, da sola, non avrei potuto sopportare. Ma più ne fai uso, peggio è. Perché sì, non pensi più, ma non capisci nemmeno più nulla. Così, dopo 4 anni di utilizzo compulsivo non ti riconosci più. E il non riconoscersi diventa un problema non solo tuo, ma anche della tua famiglia, delle tue relazioni”.
La storia di Masa è ancora diversa. “Ho iniziato a usare sostanze molto presto, sui 12-13 anni. Sono entrato nel mondo del crack, una delle estremità più pericolose della cocaina. Dopo meno di un anno ero dipendente da quasi 10 grammi al giorno e stavo malissimo. Un giorno, al Pronto soccorso mi hanno ricoverato d’urgenza, mi hanno fatto una coronarografia e hanno scoperto che avevo avuto un infarto. Non sono morto, ma ci sono andato molto vicino. Ero molto arrabbiato: non tanto per quello che avevo fatto, ma perché l’infarto mi stava dicendo che non avrei più potuto andare avanti drogandomi”.
Nel 2019 sono stati 77 gli accessi per cocaina al Pronto Soccorso del Policlinico Sant’Orsola-Malpighi di Bologna. Età media, 30 anni. Nel 2020 sono stati 54, età media 33 anni. Nel primo semestre del 2021 se ne sono già contati 31, età media 39 anni. “Si tratta di quella generazione di adulti che ha perso le redini della propria vita – ha spiegato, durante il webinar, Chiara Lanzarini, medico del Policlinico –. Quarantenni che fanno uso di droga non più in un contesto di socializzazione, ma in una sorta di ‘abbuffata’ di disperazione con abuso di sostanze”. Quanto alla percentuale di ricoveri, nel 2019 è stata del 3,8 per cento; nel 2020 del 17 per cento e nel 2021 del 16 per cento. “Arrivano pazienti più gravi, spesso non consumatori occasionali, ma consumatori problematici che in un contesto di disagio psichico, fisico, sociale, fanno assunzione più che altro a scopo di sedazione e stordimento. Gli accessi al Pronto soccorso non avvengono di notte o nel weekend, ma la mattina o nel primo pomeriggio: sono persone che assumono sostanze nelle ore diurne per cercare in qualche modo di arrivare a sera e superare il proprio disagio”.
Luca è entrato nel gruppo di Time Out a settembre: “Credo sia una delle esperienze più utili mai fatte. Posso confrontarmi con i miei pari, persone che, quando parlo, mi capiscono perché hanno passato quello che ho passato io. Mi sento a mio agio: ci si confronta, ci si aiuta. La forza del gruppo diventa la tua. Quando vedo gli altri prolungare la loro astinenza, sto bene e cerco anche io di fare del mio meglio”. “Il mio percorso terapeutico è iniziato con grande titubanza – racconta Annalisa –. Sì, all’inizio andavo al SerT, ma poi ricominciavo a farmi. Ho raccontato un sacco di bugie. Poi ho conosciuto Claudia e mi ha parlato di Time Out: il primo incontro ero agitata, nemmeno volevo andarci. Poi mi sono ricreduta: ho incontrato persone che mi capiscono perfettamente, mi sono sentita compresa e ho cominciato a raccontare tutto, con estrema sincerità. La terapia non serve solo a smettere di farsi, ma anche a capire perché si è arrivati sin lì. Io ho riscoperto la natura, ho adottato un cane. Da un anno sono rinata: devo ringraziare soprattutto il mio gruppo”. “Frequentavo le supervisioni con lo psichiatra – conclude Masa –, poi piano piano mi sono avvicinato a Time Out. Parlo molto al gruppo delle mie dipendenze, ma anche di sicurezza, scelta, libero arbitrio, possibilità. Ci vediamo una volta a settimana e, una volta al mese, un weekend. Sto vedendo grandi risultati: il mio equilibrio è in trasformazione. Uso ancora cannabis e alcol – quest’ultimo ho imparato a gestirlo in modo non compulsivo –, ma mi sento in evoluzione. Alcune tappe le ho raggiunte, altre vanno consolidate, ad altre ancora devo arrivare. La cocaina? Con lei ho chiuso”.