Covid, chi ha la sindrome di Down muore di più? Aipd chiarisce e rassicura
ROMA - “Ciò che risulta determinare la mortalità più elevata nella SD sono l’età superiore ai 50 anni, essere affetto da numerose patologie preesistenti non risolte, avere una condizione di demenza e non risiedere in famiglia”: è quanto precisa Aipd, per voce della presidente Tiziana Grilli, in merito allo studio realizzato dall’Istituto superiore di Sanità e l’Università Cattolica dedicato al “CoVID-19 e Sindrome di Down”. In base a questa ricerca, infatti, la mortalità per Covid-19 tra le persone con Sindrome di Down (SD) potrebbe essere stata fino a 10 volte maggiore rispetto a quella della popolazione generale. Un dato che non ha tardato a diffondere preoccupazione e allarme tra le famiglie delle persone con sindrome di Down.
Ed è proprio a loro che si rivolge la presidente di Aipd Tiziana Grilli: “Vorrei tranquillizzare le famiglie e tutte le persone con SD sul rischio di aumentata mortalità da COVID-19 per chi si dovesse contagiare avendo la sindrome. Il consulente scientifico pro-tempore Bazzocchi ha contattato alcuni degli autori della ricerca pubblicata sull’American Journal of Medical Genetics, Angelo Carfì e Graziano Onder. Ricerca che ha motivato il comunicato stampa congiunto dell’Istituto Superiore di Sanità e del Policlinico Gemelli e che ha poi portato all’uscita di diversi articoli sulla stampa e ad interventi in trasmissioni televisive, che hanno allarmato per la notizia di una particolare gravità della infezione da Covid19 nelle persone con sindrome di Down”, scrive Grilli nella lettera indirizzata alle famiglie.
“Si è condiviso con questi ricercatori che il dato consegue ad un’analisi statistica estrapolata da soli 16 casi di persone con sindrome di Down decedute in Italia, confrontati con i dati di oltre 3.400 schede di decessi di persone senza la sindrome – spiega ancora Grilli - Ciò che risulta determinare la mortalità più elevata nella sindrome di Down sono l’età superiore ai 50 anni, essere affetto da numerose patologie preesistenti non risolte, avere una condizione di demenza e non risiedere in famiglia”.
I risultati della ricerca sono “in linea con quelli di uno studio più ampio – riferisce ancora Grilli - condotto con il metodo della survey dalla società scientifica T21RS su 577 persone con sindrome di Down che hanno contratto l’infezione da Covid19 in vari paesi tra Europa, Asia e Americhe, ed a cui abbiamo aderito anche come Aipd, contribuendo alla diffusione del questionario di rilevamento”. Questi risultati devono però servire a “richiedere l’attenzione delle istituzioni sanitarie su una possibile peculiare fragilità delle persone con sindrome di Down alle infezioni respiratorie e non solo, ma non devono modificare il comportamento quotidiano e le abitudini dei nostri figli secondo le misure anti-contagio Covid19 consigliate per tutta la popolazione italiana. Continuiamo quindi senza allarmismi e preoccupazioni particolari – conclude Grilli - con la consapevolezza, semmai ce ne fosse ancora bisogno, che la sindrome di Down comporta sintomi e rischio di contrarre patologie, e quindi come tale deve essere studiata e seguita in centri specialistici con percorsi dedicati”.