Custodia attenuata, così si progetta un "carcere" per madri e bambini
MILANO - “Le telecamere ci sono, tante, e le esigenze di sicurezza sono garantite. Ma quando ho dovuto disegnare la figura dell'inferriata ho scelto di scostarmi da quella tradizionale carceraria, per progettarne una che avesse una funzione primaria differente: non impedire la fuga, l'evasione, ma proteggere la mamma dal buttarsi dalla finestra o dal gettare il bambino”. Cesare Burdese, architetto piemontese, classe 1952, da 32 anni si occupa di edilizia penitenziaria e del rapporto città-carcere per conto del Dipartimento amministrazione penitenziaria (Dap). Ha progettato l'Istituto di custodia attenuata per madri detenute (Icam) di Torino, il secondo in Italia dopo Venezia, a seguito della legge 62 del 2011 che ha istituito le nuove strutture.
"A Torino ho trasformando gli ex balconi in logge, usando temi metallici che si adoperano nelle normali abitazioni e che hanno la funzione di fare da frangisole, senza negare la visibilità, e che d'estate danno un senso di freschezza: sono soluzioni ampiamente utilizzate nell'edilizia civile. Quelle reti in simil-tessuto non le percepisci come gabbia o inferriate”. L'architetto non cita il caso della trentatreenne tedesca che in carcere a Rebibbia ha ucciso i due figli gettandoli dalle scale, ma a meno di una settimana di distanza la memoria corre subito a quel dramma.
box Nella sua lunga carriera, Burdese si è occupato di diversi istituti penitenziari italiani. Ha elaborato le linee guida per il nuovo carcere di Bolzano. Sono suoi gli “Spazi gialli”, dove i figli incontrano i genitori detenuti, voluti e gestiti dalla Onlus Bambini senza sbarre che da 14 anni si occupa dei bambini con i genitori in carcere. Burdese ha curato la riorganizzazione dell’istituto penale per minorenni di Torino, lavorato sulle aree verdi destinate agli incontri nella casa circondariale di Vercelli e sul “Giardino delle visite” in quella del capoluogo piemontese. Un'esperienza maturata sin dal 1986, che lo ha infine portato ad essere membro, nel 2013, della Commissione Palma per la riorganizzazione penitenziaria e una “nuova quotidianità detentiva”, oltre a essere stato l'unico architetto a sedersi al tavolo “Architettura e Carcere – Gli spazi della pena” degli Stati generali dell'esecuzione penale. Di queste ultime due esperienze parla con rammarico: “Ho vissuto i recenti fallimenti che hanno caratterizzato nel nostro paese in questi ultimi anni lo scenario architettonico penitenziario” ha scritto in un articolo-sfogo pubblicato da Ristretti Orizzonti il 20 settembre, nel day after del caso Rebibbia. “I bambini continuano da innocenti a scontare la galera – scrive Burdese – in ambienti inadatti a loro e alle loro mamme, disumani e inadeguati, salvo rarissime eccezioni. La cosa che più sconcerta è che non si intravedono all'orizzonte, da parte di chi ne ha la responsabilità istituzionale, per la questione delle mamme detenute con i loro bambini, segnali di una programmazione certa fatta di strategie edificatorie, progetti architettonici, risorse economiche utilizzabili, auspicabilmente alternativa al carcere”.
Ma come si progetta un carcere che non deve sembrare un carcere, per mamme e bambini? La parola d'ordine è “trasformare le parole in muri in maniera coerente – risponde Burdese –: la pena non deve consistere in metodi disumani. Ma che cosa significa questo in termini spaziali? Cosa vuol dire un carcere umano?” “Quando è uscita la legge 62 sugli Icam ho affrontato la progettazione di quello torinese chiedendo al Dipartimento quali fossero i requisiti spaziali che deve avere un Icam – spiega l'architetto –. Nessuno ne aveva idea, mancavano riferimenti codificati e il committente sapeva solo che quello è un istituto a custodia attenuata”. E allora Burdese è partito dal concetto di “ambiente domestico”, dal punto fermo che “bisogna creare una casa, non ingentilire una sezione femminile”, mutuando prassi dall'edilizia civile e trasportandole su quella penitenziaria.
“Voi in casa mettete i cartelli con scritto 'bagno', 'cucina'?” si chiede l'architetto, ma anche con un po' di polemica, perché “l'ho visto fare all'Icam di Venezia e anche nel nostro di Torino con dei cartelli di carta provvisori che indicavano le stanze prima che li facessi togliere”. Per Burdese a Torino “c'era da progettare una casa che avesse solo alcuni aspetti tipici della connotazione carceraria, come le tante telecamere, funzionali alle esigenze di sicurezza e controllo, ma senza connotazioni ulteriori”. L'Icam di Torino, che è costato 600 mila euro e può ospitare 15 persone, si trova dentro una palazzina di quattro piani, un tempo appartamenti per il personale. “In questi due piani ho concepito la zona notte differente dalla zona giorno. La prima al piano superiore, con piccolo ascensore e sali-scale per disabili, la seconda al piano inferiore con delle zone dedicate ai tappeti morbidi per il gioco dei bambini”. “Le camere da letto non hanno i portoni blindati ma le stesse porte degli appartamenti preesistenti: entri ed esci quando vuoi”. Perché? “Perché così al mattino le donne sono obbligate a non 'bivaccare' sulle brande, come succede nelle sezioni 'Nido' delle carceri che ho visitato” spiega Cesare Burdese. Gli arredi? “Realizzati nella falegnameria del carcere: un letto, un armadio, un tavolo, un fasciatoio e l'Ikea ci ha regalato le culle”.
“C'è una quotidianità spaziale e una temporale che vanno di pari passo, perché alle 8 sono in camera al piano superiore a lavarsi, a preparare il bimbo per la giornata, oppure nella lavanderia-stireria che abbiamo ricavato. E poi alle 9 sono in soggiorno, al piano inferiore, per preparare la colazione o dargli il biberon, oppure in alcune sale dove incontrano l'avvocato, lo psicologo, imparano a scrivere, si formano alla professione se ci sono dei progetti all'interno della struttura”. Burdese è netto: “Il cambio di stanze permette di articolare una quotidianità detentiva”. Con un accorgimento: “Una sola cucina di casa, ma con doppia postazione”. Perché? “Per problemi di etnia: lì dentro ci sono sopratutto donne Sinti e dal Maghreb, che potrebbero avere dei problemi culinari che sfociano in rabbie e astio. Con le due postazioni abbiamo risolto il problema alla radice”. Le sale colloquio? “Degli spazi immaginati come un locale da ristoro, con tavolini da bar non avvitati al pavimento e il gazebo all'esterno. D'estate si va all'ombra a parlare sul prato e nel dehors, in un ambiente normalizzato”. “Non mi è stato permesso permesso – aggiunge – ma nel giardino volevo creare una piccola collina dove mettere delle capre a brucare l'erba e stringere un accordo con la facoltà di Agraria che è a quattro passi dall'Icam”.
Burdese chiude con una nota dedicata ai bambini. Per lui “al fanciullo bastano i suoi sogni e la sua fantasia, le suggestioni le crea da solo dentro la camera, non serve addobbare le pareti con Pippo, Pluto e Paperino”. Però una cosa l'ha voluta fare: “Sono andato al supermercato a comprare delle tonalità di colore e su ogni perimetro delle finestre delle stanze ce n'è uno diverso: così il bimbo, ogni volta che vuole, può disegnare la sua casa dicendo anche ai compagni di scuola che quella verde, rossa o gialla è la sua finestra. È l'unica 'protesi' che ho dato ai bambini: devono poter essere orgogliosi di dire 'la mia finestra è quella'”. (Francesco Floris)