Da Damasco a Bologna, le rivolte dividono la comunità siriana
Manifestazione a Bologna dei siriani 26 novembre 2011
Mustafa è stato uno dei primi siriani ad arrivare a Bologna. All’epoca aveva 19 anni e veniva a studiare Medicina, con in tasca solo 20 mila lire. “All’inizio noi arabi eravamo pochi: tutti ci chiedevano di raccontare della nostra cultura, eravamo ben accettati. Quando non ricevevo i soldi dal mio Paese, il negozio sotto casa mi faceva credito per 3-4 mesi e pagavo dopo. Allora Bologna era la città più bella del mondo”. Poi Mustafa si è sposato con una donna italiana, oggi fa il medico a Imola e ha due figli, anche loro medici. Sono circa 300 i cittadini siriani residenti in Emilia-Romagna, (50 nella sola Bologna), senza contare chi nel tempo è riuscito a diventare cittadino italiano. La comunità si divide tra famiglie, anche miste, in Italia da anni e ragazzi arrivati da poco in città per studiare all’università. Molti non tornano in Siria perché hanno paura di essere perseguitati per le loro opinioni politiche. Chi negli anni ’80 è scappato dopo le repressioni del presidente Hafez al Assad (padre di Bashar), per esempio, è considerato nemico del regime. Ma c’è anche chi sostiene al Assad, come le minoranze religiose, che temono di perdere i propri diritti, e chi è contrario a un intervento esterno.
Molti ragazzi siriani, anche negli anni successivi, sono approdati a Bologna per studiare. Ammar Dayyoub è uno di loro: ha 38 anni e ha appena concluso un dottorato in Colture arboree all’Alma Mater. In Siria ha lavorato per quattro anni come responsabile della certificazione e del controllo delle aziende dei pestidici e fertilizzanti. “Ma c’era troppa corruzione: erano abituati a dare soldi per risolvere ogni problema. E io non lo accettavo”. A Bologna Ammar lavora nel settore agrario ed è sposato con una donna tunisina, ma è preoccupato per quello che succede in Siria. “Al telefono con la mia famiglia non posso parlare di politica, ho paura che qualcuno gli possa fare del male. Chiedo solo: Come state? Tutto tranquillo?”. Nella sua città, Salamiya, abitata dalla minoranza islamica ismailita, non si registrano morti nelle manifestazioni. “Adesso il regime non spara sulle minoranze religiose per far pensare all’estero che il problema sono solo i sunniti, che vogliono un conflitto settario. Ma non è vero. Tutto il popolo sta protestando”.
Non tutti i siriani presenti a Bologna però sostengono la protesta. “La situazione in Siria non è certamente come viene descritta dai media”, spiega Michele (il nome è di fantasia). La sua famiglia fa parte della minoranza cristiana in Siria, e nei primi anni ’80 si è trasferita in Italia, dove Michele è cresciuto. “Nel mio ultimo viaggio in Siria, un mese fa, ho visto un grande malcontento a causa delle sanzioni europee che hanno cercato di distruggere l’economia, penalizzando tutta la popolazione e causando enormi danni. Molte persone hanno perso il lavoro”. Michele è molto critico nei confronti dell’opposizione. “Sono molto fiducioso per le riforme promesse dall’attuale presidente ma capisco anche come sia difficile portarle a termine in una situazione così esplosiva”, spiega. “L’opposizione in questo momento dovrebbe spingere per un vero dialogo nazionale e scacciare i tentativi e gli sponsorizzatori che vogliono portare il paese verso una guerra civile introducendo armi. Gli oppositori hanno in mente un modello troppo lontano dalla realtà siriana e non capiscono che certe cose si ottengono a stadi, non si può ottenere tutto e subito”. Altri la pensano come Michele, ma pochi accettano di parlare: per molti i mass media occidentali stanno distorcendo quello che accade realmente in Siria.
Per la famiglia di Maher, studente di 27 anni, i problemi con il regime non sono una novità. “Mio padre è stato arrestato dai servizi segreti ai tempi del presidente Hafez al Assad nel 1982 e solo per miracolo è sopravvissuto”. Maher e la sua famiglia non hanno mai appoggiato il regime: a scuola, quando a 16 anni tutti erano costretti a iscriversi al partito, Maher era uscito dalla classe. Suo fratello invece è stato uno degli organizzatori delle manifestazioni di quest’estate. “È stato arrestato dopo che un amico aveva fatto il suo nome sotto tortura, è rimasto in prigione quasi 40 giorni”, racconta Maher. “Noi non potevamo dormire, la prima settimana non sapevamo nemmeno dove lo tenessero, perché se vai a chiederlo, portano via anche te. Lo hanno torturato anche con la corrente elettrica, picchiato in testa e sulla schiena”. (ilona nuksevica)