11 giugno 2015 ore: 11:52
Immigrazione

Da Rebibbia ai campi profughi della Palestina: venti anni di teatro sociale

Conversazione con Riccardo Vannuccini, regista di “Sabbia”, spettacolo teatrale che vede protagonisti 20 rifugiati: solo l’ultima tappa di un percorso che ha attraversato carceri, istituti per disabili e villaggi in zone di guerra
Sabbia 1. locandina
ROMA - In vista dell'arrivo di "Sabbia" sul palco del teatro Argentina di Roma - spettacolo che ha per protagonisti venti rifugiati del Cara di Castelnuovo di Porto (12-13 giugno)- , abbiamo incontrato il regista, Riccardo Vannuccini, che ripercorre i suoi vent'anni di attività nel teatro sociale, ponendo l'accento sull'importanza di portare all'interno di istituzioni totali o realtà chiuse una forma di "salvazione artistica". Per tentare di riabilitare la persona e l'affermazione della sua identità che all’interno di identità chiuse è sempre esposta all'azzeramento e all'automazione. Lo spettacolo va in scena in occasione della Giornata mondiale del rifugiato. 
Sabbia 1. locandina
Quando è iniziato il rapporto tra quello che è lo strumento del teatro e i luoghi in cui hai tenuto i laboratori teatrali?
Ho iniziato alla metà degli anni novanta con le detenute di Rebibbia, quando era ancora abbastanza chiaro cosa fosse il carcere e cosa fosse il teatro. O almeno, sebbene fossero entrambe delle istituzioni o delle pratiche in crisi era l'incontro tra due soggetti riconosciuti, riconoscibili, ancora abbastanza esatti. Oggi invece entrando in un carcere fai fatica a distinguere i conduttori delle attività dai detenuti. Il rischio quindi è che il rapporto tra il luogo e lo strumento serva a mantenere in piedi l'istituzione carceraria, a riconoscerla, invece che andare a scardinarla e sollecitarne le criticità. Tant’è che oggi il teatro viene fatto allo stesso modo che negli anni cinquanta: torna a significare cultura, letteratura, parola pedagogica che giudica e separa nettamente. E torna ad esser fatto e gestito da chi lo conduce: l'intellettuale, il sapiente, il libero. Poi c'è l'altro, il detenuto, ed è sempre bene che ci sia e che sia riconoscibile, perché attira pubblico, commuove. E questo meccanismo funziona solo se viene ricordato al pubblico che quell’ attore è un detenuto, e dunque resta un detenuto per sempre, anche se fa teatro, e che grazie al teatro si salva, ma solo a condizione che resti per sempre un detenuto. In certi casi il teatro in carcere è diventata una seconda forma di detenzione. 
 
Riccardo Vannuccini
Sabbia 2
E quale funzione deve avere invece il teatro all'interno di istituzioni chiuse?
Deve rompere un equilibrio, innescare il caos, mettere a soqquadro, l’azione teatrale non deve contribuire a mantenere l'ordine o addirittura ad instaurarlo. Deve fare accadere una situazione di crisi che non vuol dire confusione, bensì quel caos generativo che genera la vita che illimita il possibile. Che è altra cosa che portare confusione, come è altra cosa che riproporre la divisione giudiziaria fra i sapienti e non. Vedi quello che è avvenuto nel settore femminile del carcere di Rebbibbia dove siamo stati invitati ad interrompere la collaborazione perché le detenute col teatro si divertivano troppo, erano “troppo eccitate”. Dal nostro punto di vista, l'esperimento teatrale stava riuscendo, si stava raggiungendo il centro critico di quando il teatro entra in relazione con le cosiddette istituzioni totali.
 
Questa forma di attrito si è riproposta anche in altre realtà?
Nel campo profughi siriani spontaneo a Irbid, in Giordania, dove abbiamo lavorato con i bambini. L’azione teatrale ha generato il caos perché i capi del villaggio erano contrari al teatro: qui i bambini avevano il compito di andare a chiedere l'elemosina al semaforo. Quando siamo stati allontanati e il laboratorio di teatro si è interrotto, i bambini hanno reagito avviando una rivolta: volevano fare teatro. Così siamo arrivati ad una trattativa per cui chi voleva poteva venire con noi nel campo attrezzato palestinese di Irbid, dove invece siamo stati accolti con entusiasmo e dieci bambine palestinesi si sono unite al gruppo. Questa esperienza si è portata dietro delle trasformazioni. Ci sono delle cose che vengono assorbite dal corpo e restano come elementi che giocano nella relazione fra queste cose e gli accadimenti. Così il bambino torna a fare il bambino, torna a giocare, perché il gioco vuol dire capire il mondo. Ma non secondo un’ operazione pedagogica o sociale, bensì di salvazione artistica.
 
Riccardo Vannuccini
Sabbia 3
Dalle carceri ai villaggi profughi delle zone di guerra, fino ai centri di prima accoglienza per richiedenti asilo. Cosa ha determinato questa nuova fase del lavoro di Artestudio? 
Negli ultimi quattro o cinque spettacoli che ho visto sul tema i rifugiati avevano sempre la valigia in mano, ad interpretare la storia di chi ha viaggiato tanto, di chi ha sofferto tanto, con gli africani che ballano perché gli africani ballano. Insomma una serie di stereotipi capaci di rendere i rifugiati immediatamente riconoscibili, come se quella del rifugiato fosse una razza, piuttosto che una condizione. È lo stesso meccanismo di costruzione dell’immaginario che si ripropone anche negli spettacoli sul tema detentivo:  i detenuti che parlano napoletano e che si vantano di chi hanno ucciso o di quello che hanno fatto. Per questo motivo all'inizio dell'esperienza fatta con i rifugiati abbiamo cambiato le collaborazioni, perché ci veniva detto "è uno spettacolo bellissimo ma non si capisce che sono rifugiati". Esatto. Far vedere quello che posso vedere è quello che fanno i giornali e le televisioni, oppure la fiction, che ormai condiziona moltissimo teatro. Il teatro invece deve poter parlare delle cose invisibili, delle cose che non si riescono a vedere.
 
E Sabbia, in particolare, come è stato preparato?
Il laboratorio è durato nove mesi. Come per gli altri spettacoli non abbiamo utilizzato un approccio letterario o scolastico  in cui imparo a memoria una cosa e la ripeto, fosse Dante Alighieri o Shakespeare e tutto ciò che si impara a riferirie è l'unica cosa che vale, che spiega appunto l’azione teatrale. Al contrario in questo caso la sapienza è rappresentata dall'essere presenti, cioè sapere quello che si sta facendo con tutto il corpo, dove lo si sta facendo e con chi, quando lo si sta facendo, e soprattutto come lo si sta facendo. Si tratta di azioni e non di chiacchere. Non esiste un copione. Si parla molto poco e tutto si concentra sulle azioni e nell'uso/espressività del corpo. I partecipanti, in questo caso giovani africani più o meno ventenni, lavorano su gesti semplici ma che in qualche modo , in maniera indiretta, sappiano rappresentarli. È quando un gesto è compiuto, quando nel gesto si è fondata attenzione, diventa rappresentativo, ci mostra altra cosa da quello che compie. Possono semplicemente spostare una sedia ma è come se stessero spostando la loro casa. Dunque quel gesto diventa azione scenica. L'obbiettivo consiste nell'individuazione di quello che a teatro si può chiamare la linea d'orizzonte. L'uomo primitivo all'inizio camminava curvo e mangiava a terra prendendo il cibo direttamente con la bocca. Finché era lì non aveva idea di dove fosse. Poi quando ha raggiunto una postura eretta ha visto l'orizzonte e si è potuto collocare in uno spazio, è iniziata un’azione culturale completa e complessa.Ecco il teatro dovrebbe servire a questo. Capire dove si sta, e cosa si sta facendo. 
 
In che modo il diario di viaggio di Ibn Battuta, oltre alla danza di Pina Baush o il teatro di Jerzy Grotowski, hanno contributo all’elaborazione di Sabbia?
Per questo spettacolo ci siamo rifatti anche a Battuta, ma non tanto per le parole quanto per il fatto che questo signore ha compiuto fisicamente i suoi viaggi. Quei viaggi che sono durati ventotto anni, lungo i centoventimila kilometri che attraversano l'equivalente di quarantaquattro stati moderni dall'Africa a tutto il Medio Oriente, incontrando migliaia di persone e prendendo nota dei loro usi e costumi. Mentre oggi viaggiamo molto senza muoverci da casa. E questo fa la differenza, perché  la conoscenza del mondo è scritta nel corpo, perché è proprio il corpo che comprende, che capisce. Quindi abbiamo indagato le sue reazioni quando per la prima volta ha incontrato gli africani e quel tipo di abitudini, su come il suo corpo ha capito e come ha reagito e come si è scandalizzato e come si è appassionato quando la notte gli hanno donato delle ragazze nude in omaggio al viaggiatore. 
 
Per i ragazzi del Cara di Castelnuovo di Porto è avvenuta una “ salvazione artistica”?
Non possiamo parlare di salvazione, ma di recupero di una forma di energia vitale grazie all’ azione artistica del teatro direi di sì. Non per tutti naturalmente e non allo stesso modo. Ad esempio nel Cara di Gradisca d’Isonzo, dove abbiamo portato un laboratorio biennale, una giovane ragazza pakistana dopo un anno passato nel centro tra una brandina e la mensa, ha trovato il coraggio di allontanarsi da questo Centro e proporsi per un lavoro in un’altra città. Arrivare anche a Roma significa incontrare il giovane africano che sta in un posto con altre ottocento persone, dove ad esempio si mangia tutti la stessa cosa, allo stesso modo, alla stessa ora. E  per quanto questo posto sia confortevole si mette in atto per lui una forma di umiliazione, di arretramento dell’ essere umano, cui segue un annullamento identitario, una mortificazione delle capacità espressive ovvero di relazione col mondo. Allora è attraverso il gesto artistico che è possibile recuperare la possibilità di comprendere gli accadimenti dell’ esistenza, di metterli in figura attraverso la creazione del possibile e della capacità espressiva, artistica tipica dell’ essere umano che si realizza nella relazione. 
 
Quando il progetto di Sabbia è stato presentato agli ospiti del Centro quali reazioni e difficoltà avete incontrato?
Abbiamo incontrato all’inizio una certa diffidenza. Purtroppo gli stereotipi come esistono per noi, esistono anche per loro. Dunque fargli capire che occidentale non significa solo ricco non è stato semplice. Come non è stato semplice spiegare che seppure l'ospitalità è sacra, in tutte le lingue e le religioni del mondo, l'accoglienza ha delle regole molto precise che impone anche a noi uno sforzo importante.
 
Dopo vent'anni di teatro nelle istituzioni totali cosa resta?
Sono un po' affaticato lo ammetto, ho incontrato tanta sofferenza: disabili dimenticati, bambini che fanno i meccanici a sei anni in un paese straniero, detenuti inutilmente detenuti, anche dal teatro, ragazzi giovanissimi con inspiegabili depressioni. Al tempo stesso la mia stanchezza è compensata dai giovani che adesso lavorano con ArteStudio. Giovani donne in questo caso, piene di energie e competenza, sono sorpreso dalla loro forza, dalla loro passione, dalla serietà con cui impostano il lavoro. Altro che giovani rammolliti. (Valeria Calò)
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