Dal catering all’allevamento di capre: il riscatto delle donne rifugiate
ROMA – Il maquis in Costa d’avorio è il posto in cui si può mangiare tutti insieme. A metà strada tra un chiosco e un piccolo ristorante, qui si condivide il cibo, un the, qualche chiacchiera solo per stare insieme. Ed è proprio pensando a questo luogo caro nel suo paese di origine che Habiba, 47 anni, ha costruito la sua storia di riscatto qui in Italia. Costretta a lasciare la sua patria dopo anni di conflitto è arrivata 9 anni fa, ed è stata accolta al Centro Astalli di Roma. Oggi ha messo su un catering insieme ad altri migranti. Il progetto si chiama Makì e gli chef arrivano dal Togo , dalla Guinea, dalla Mauritania, dal Mali, ma anche Turchia, Iran, Afghanistan, Pakistan. la storia di Habiba è una di quelle presentate oggi a Roma dai Radicali italiani nell’ambito dell’iniziativa “Donna anche noi: storie di fuga e di riscatto”, realizzata in occasione della Giornata della donna che si celebra l’8 marzo. “Abbiamo pensato di coinvolgere le donne immigrate regolari che spesso vengono dimenticate durante le celebrazioni di questa giornata. Senza di loro è un 8 marzo a metà– sottolinea Emma Bonino -. Al di là delle mimose, oggi più che mai è necessario dare la parola a chi ha vissuto storie di fuga anche drammatiche e che ce l’ha fatta. Mancano le irregolari, che hanno più paura ad esporsi, ma noi stiamo conducendo una battaglia per il superamento della legge Bossi-Fini”.
Il catering di Habiba. Il progetto di ristorazione Makì è nato per caso, racconta Habiba: “avevamo l’esigenza di trovare i soldi per pagare il biglietto dell’autobus ad alcuni rifugiati. E così abbiamo pensato di fare la cosa che ci piaceva di più: cucinare. Abbiamo iniziato in un centro sociale romano, la Città dell’Utopia, e poi abbiamo continuato. Ogni volta che facciamo una pietanza raccontiamo un po’ della nostra storia”. Oltre al catering la donna si occupa di mediazione culturale presso l’Inmp. E’ riuscita inoltre a farsi riconoscere il titolo di studio in scienze infermieristiche. “Al centro Astalli mi hanno assistito, ho fatto un corso di italiano e oggi voglio restituire un po’ di qull’aiuto che ho ricevuto – spiega -. Poter lavorare significa sentirsi autonoma e mi fa sentire più integrata in questo paese”.
Le capre di Agitu. Agitu Ideo, etiope, vive nel Trentino, in Val di Gresta, con 80 capre. Arrivata qui con una borsa di studio, ha deciso di ripercorrere in Italia la storia dei suoi antenati pastori nomadi. “Quando sono andata via dal mio paese, c’erano grossi problemi con il governo. Gli studenti perdevano la vita nelle piazze durante le manifestazioni, la proprietà dei terreni era passata in mano allo Stato e le risorse non erano distribuite in modo equo – spiega – Io avevo la carta soggiorno, la mia fuga è stata quasi casuale: prima sono andata in Kenya, poi sono arrivata in Italia dove alcuni amici mi hanno dato ospitalità”. Qui Hagitu ha iniziato a scrivere il suo progetto “La capra felice”: un’azienda agricola biologica che produce, appunto, formaggio di capra. “La nostra è un’attività che salvaguardia l’ambiente e che produce cibo sano – afferma – è un’idea che parla di un’economia diversa, di felicità”.
Le donne salvate da Princess. Princess Okokon, ha invece alle spalle una vita più difficile: nigeriana ed ex vittima di tratta, oggi lavora come mediatrice culturale al Piam di Asti. “Sono arrivata in Italia, a Torino, nel 1998 attraverso un’organizzazioni di trafficanti. Qui sono stata venduta a una mamam che mi ha costretto con violenza a prostituirmi – racconta -. Un giorno per le botte sono finita in ospedale e così ho deciso di scappare da loro”. Dopo aver conosciuto Alberto Mussino, presidente del Piam e oggi suo marito, ed aver ricevuto l’ aiuto della Caritas di Asti la donna ha deciso di lavorare per togliere dalla rete dello sfruttamento altre ragazze. “Al Piam offriamo accoglienza e assistenza legale alle vittime di tratta, ma cerchiamo anche di insegnare loro come diventare una donna vera che nessuno può sfruttare”. Princess racconta che sono più di 200 le donne che lei ha assistito. “Oggi ne abbiamo 45 in accoglienza e molte altre in lista d’attesa – conclude – Ci sono donne che sono arrivate a pagare anche a 80mila euro prima di uscire da questo giro di prostituzione. Noi cerchiamo di tirarle fuori il prima possibile, lavorando anche sulla loro integrazione”. (ec)