Dall’Afghanistan alla Svezia: mi batto per i minori (e le donne)
STOCCOLMA – “Credo che tutti debbano avere gli stessi diritti e le stesse possibilità. E questo non può prescindere dall’essere uomo o donna, dall’essere nati in un paese o in - un altro”. Lo dice col tono sicuro e lo sguardo deciso, Mahboba Madadi, perché per lei quelle parole non hanno niente di scontato. Nata in Afghanistan, nel 2013, quando aveva 16 anni, ha dovuto lasciare la sua terra, che non era più un posto sicuro. E ha deciso di arrivare qui, nel paese dei diritti delle donne e dei rifugiati. Ma il viaggio verso la Svezia è stato lungo e rischioso. Oggi è richiedente asilo, ed è a capo di un’ong, nata nel 2012 a Malmo, che si occupa dei diritti dei minori stranieri non accompagnati. la Coalition for unaccompanied minors, di cui fanno parte migranti arrivati soli in Europa quando erano ancora minorenni. Il loro motto è: “nulla si decide su di noi, senza di noi”.
La decisione di partire è stata sofferta: in Afghanistan i maschi vanno via, le donne restano per sposarsi. “In Afghanistan c’erano molti problemi, come ce ne sono anche ora. La scelta di partire da sola è stata molto sofferta, ma alla fine ho deciso di farlo. Nel mio paese, di solito, è il maschio a partire mentre le donne restano per sposarsi – racconta in una pausa del seminario organizzato a Stoccolma da Esn, l’European social network sui minori stranieri non accompagnati - . Non è stato facile: per arrivare fin qui ho attraversato tanti paesi, neanche mi ricordo più quanti fossero. Viaggiamo in treno, con altri amici, avevamo sempre paura di essere scoperti, e noi donne di essere aggredite. Da quello che avevo letto e da quanto mi avevano raccontato, le ragazze migranti sono costantemente vittime di abusi. Non nascondo che ho avuto paura anch’io di essere aggredita”. Secondo i dati Eurostat nel 2015 sono stati circa 95 mila i minori stranieri non accompagnati che hanno fatto domanda di protezione internazionale in Europa, nel 2016 il numero è sceso a 63.280. La quasi totalità (90 per cento) sono maschi e hanno un’età compresa tra i 14 e i 17 anni. Nel 2015 la maggior parte. Il principale paese di destinazione è proprio la Svezia, che nel 2015 ha accolto circa 32mila minori soli, che oggi sono sulla soglia della maggiore età. “Appena arrivata sono stata accolta in un centro per migranti, poi una volta fatta la domanda di protezione sono andata a vivere con altre ragazze in un appartamento e ho imparato lo svedese – spiega -. L’accoglienza qui è una delle migliori d’Europa, e funziona molto bene. Ma anche in Svezia negli ultimi anni le cose stanno cambiando”.
Mahboba Madadi, |
I suicidi tra i minori in Svezia e l’ong che difende i diritti dei più deboli tra i deboli. Nell’ultimo anno, anche la Svezia, modello dell’accoglienza in Europa, ha inasprito le regole sul diritto d’asilo. Questo ha provocato una serie di problemi tra i minori stranieri, in particolare di origine afgana. Da quando in fatti l’Afghanistan è stato riconosciuto un “paese terzo sicuro” molti loro hanno il timore di essere rimpatriati una volta compiuta la maggiore età. Il caso più eclatante è stato quello di Mustafa Ansari, un ragazzo di 17 anni che si è tolto la vita dopo un diniego. “Gli esiti negati delle domande d’asilo stanno aumentando, la situazione è cambiata molto negli ultimi due anni. Molti di noi a 18 anni vengono rimandati indietro, in Afghanistan, un paese che non è ancora sicuro, nonostante quello che dicono gli accordi tra le nazioni – aggiunge Mahboba -. Ci sono addirittura dei ragazzi, nati in Iran e Pakistan, che vengono mandati in Afghanistan, dove non hanno nessuna rete amicale o parentale. C’è un problema di accertamento dell’identità, sia per il paese di origine che per l’età, spesso si fa con un esame del polso dall’esito arbitrario. Quello che noi diciamo con forza è che questi ragazzi non devono essere rimpatriati – aggiunge – la situazione in Afghanistan è catastrofica, bisogna trovare una soluzione qui, e al più presto. Dopo i suicidi di questi ragazzi abbiamo protestato, e continuiamo a farlo ogni giorno. Le deportazioni non sono una risposta”. Anche secondo Petra Rinman, che a Stoccolma è a capo di un centro per minori stranieri non accompagnati, uno dei problemi principali è il passaggio all’età adulta: “il tema dei dinieghi oggi è centrale. Nel 2015 sono arrivate qui tantissime persone, tra cui molti minori, ora per loro si aprono due strade: o rimanere qui o rischiare di tornare in dietro. Molti sono sotto stress, noi lavoriamo con loro con un’attenzione particolare alla salute mentale”. Un' inchiesta del New Yorker ha, infatti, rivelato come molti di questi ragazzi soffrano di patologie psicologiche: alcuni entrano in uno stato di totale apatia, simile al coma. "Lo scopo della nostra organizzazione è diventare per questi ragazzi una famiglia – sottolinea Mahboba– quando sei un minore solo, non hai nessuno che ti consigli e ti aiuti, o che ti avverta dei pericoli. E questa solitudine può farti ammalare. Ecco noi tentiamo di stargli vicino e di collaborare con le altre organizzazioni perché i bisogni dei minori vengano rispettati”. La ragazza racconta che per lei la scelta di diventare un’attivista è stata quasi automatica: “anche mio padre lavorava in un’ong. Quando sono arrivata qui, da minorenne, con tutti i rischi del caso ho deciso di attivarmi per aiutare quelli che avevano avuto il mio stesso percorso: una scelta quasi scontata e sicuramente necessaria".
“Sono femminista, un concetto che nel mio paese quasi non esiste: lì è difficile anche solo essere donna”. Oltre ai diritti dei minori Mahboba si batte per la parità di genere. Si definisce orgogliosamente femminista: “ Lo sono e lo rivendico. Penso che le donne debbano avere gli stessi diritti e le stesse possibilità degli uomini. i diritti non sono una questione di gender o di razza – afferma -. Io ho gli stessi diritti di mio fratello, ho gli stessi diritti dei miei colleghi maschi, dei miei compagni di classe. Ma a volte può capitare questi diritti siano solo sulla carta e che non ci siano, invece, a livello lavorativo o sociale. Ecco, credo che bisogna lavorare perché questo cambi. La Svezia è un paese molto avanzato su questo tema, ma nel mio paese è impossibile per una donna esprimere se stessa: il femminismo stesso è un concetto che quasi non esiste, è difficile essere femminista, perché è difficile anche solo essere donna”. Quando le faccio notare che il velo che indossa per molte femministe rappresenta un simbolo di sottomissione e di mancanza di libertà mi risponde semplicemente “no, io non credo”. “Questa è una mia scelta, nessuno me lo ha imposto. Questo velo non ha a che fare con la religione, mi ricorda piuttosto la mia cultura, da dove vengo. Credo che ognuno abbia il diritto di indossare quello che vuole – aggiunge – A volte lo metto, altre no. Ma è sempre una scelta che faccio consapevolmente. Dobbiamo accettare quello che le donne vogliono essere, sempre, anche in questo caso”. (Eleonora Camilli)