Dalla dittatura alla baraccopoli: il destino dei 100 eritrei di Ponte Mammolo
ROMA - Non si vedono, non si sentono eppure oltre il parcheggio della stazione di Ponte Mammolo vivono cento rifugiati eritrei. Chi arriva a Roma dopo un viaggio disumano, trova alloggio e ospitalità in questa baraccopoli. Un punto di riferimento per tutta la comunità. “Quando sono uscito dal centro di identificazione di Trapani, non sapevo dove andare, cosa fare, ero solo. Sono stato in Calabria, a Catanzaro, a raccogliere i pomodori. Poi sono arrivato a Roma e insieme con altri eritrei ci siamo sistemati qui. È la nostra casa ormai”, dice Sanai di 35 anni.
"Ci ho messo 3 anni per arrivare qua". Scappano dalla dittatura di Isayas Afeworki. Sono stati rinchiusi nelle carceri, torturati, costretti a prestare servizio militare per anni, condannati ai lavori forzati, come racconta Adam, un ragazzo di 35 anni che nel suo Paese faceva il giornalista e che ora a Roma fa il cameriere in un albergo del centro. “Lavoravo nell’unico giornale rimasto aperto in Eritrea. Quando ho visto i miei colleghi sparire ad uno ad uno, ho deciso di partire per l’Italia. Ci ho messo 3 anni per arrivare. Ho attraversato il deserto, sono passato per il Sudan e lì mi hanno rinchiuso in carcere perché credevano che avessi informazioni segrete sull’Eritrea. Poi, una volta uscito, sono scappato in Libia, ma non avevo più nulla e ho dovuto lavorare per pagarmi il viaggio verso l’Italia. Ora sono qui”. Adam è stato fortunato, alcuni hanno impiegato quasi il doppio per arrivare: “Cinque anni, cinque anni” ripetono con tristezza agitando la mano aperta. Altri non arrivano proprio: “Un anno fa mi ha telefonato un mio amico dicendomi che l’avevano arrestato, lavoravamo insieme al giornale. Mi ha chiesto di aiutarlo in lacrime. Ma cosa potevo fare?”. Non raccontano volentieri del loro viaggio verso l’Italia. I segni che hanno sul corpo, le bruciature, le cicatrici parlano per loro.
La loro “casa” ora sono queste baracche. Due letti messi l’uno accanto all’altro da dividere in quattro o in cinque, quando la stagione della raccolta dei pomodori finisce e si ritorna a Roma per l’inverno. Tutte le porte in legno o in lamiera sono chiuse durante il giorno. Il caldo all’interno è insopportabile. Il campo è una vera e propria comunità: ogni eritreo che lavora pensa al sostentamento di altri 5 o 6 connazionali che non hanno un’occupazione.
"L'area bar/ristorante". Al centro della baraccopoli sorge una piccola costruzione in muratura. Adam e Sanai la chiamano “l’area bar/ristorante”. Hanno dipinto le pareti di rosa, messo le persiane all’unica finestra presente e portato una credenza dove conservare i generi alimentari. Su un ripiano in alto Sanai indica la Bibbia e il Corano. “Qui siamo tutti fratelli, non importa se cristiani o mussulmani”. Nella stanza accanto, larga poco più di un metro, hanno sistemato un piccolo cucinino a gas. Un ragazzo a torso nudo, si aggira indaffarato e sudato dietro ai fornelli: al momento non ha un lavoro, così prepara da mangiare per tutti. Fino ad un anno fa era l’unica costruzione in muratura presente nel campo, ora ne hanno costruito un’altra. Con il passare del tempo, però, la vita nel campo non migliora: davanti alle baracche ci sono calcinacci, bottiglie di plastica e rifiuti.
La maggior parte di questi ragazzi non parla italiano. Sperano che prima o poi la dittatura in Eritrea finisca, così potranno far ritorno a casa, la loro vera casa, dalle loro madri e dai loro padri. Nel frattempo vivono in una specie di limbo, senza un lavoro, contando i giorni che passano al campo della stazione di Ponte Mammolo. (Maria Gabriella Lanza)