Dallo yogurt Barikamà alle arance “pulite”: quando l’agricoltura è solidale
ROMA – È una storia che parte da lontano quella dello yogurt biologico Barikamà, che oggi si può gustare sulle tavole della Capitale grazie alla distribuzione dei Gas, i gruppi di acquisto solidale. Tutto comincia dalla rivolta di Rosarno nel 2010, quando nella cittadina calabrese un gruppo di braccianti agricoli africani si ribellò contro lo sfruttamento e il razzismo. “Siamo arrivati a Roma senza soldi e senza documenti e siamo stati ospitati dal centro sociale Ex Snia Viscosa”, racconta Dauda, “imprenditore” della prima ora, che oggi è uscito dal progetto per lasciare il lavoro ad altri “fratelli”. “La nostra vita era mangiare e dormire – prosegue –. Ma poi qualcuno ci ha proposto di insegnarci a fare lo yogurt e noi ci siamo lanciati in questa avventura”. All’inizio erano solo in due, producevano appena 10 litri a settimana e andavano a vendere nei mercati, portandosi lo yogurt in giro nello zaino. “I primi tempi la gente si spaventava a vedere degli africani che vendevano le cose da mangiare – prosegue Dauda –. Ci dicevano: ‘Sei sicuro che non muoio?’” Poi a poco a poco il progetto è cresciuto e attualmente a lavorarci sono in sei provenienti da Mali, Guinea, Costa d’Avorio e Senegal per una produzione complessiva di 200 litri a settimana. Inoltre lo yogurt viene prodotto presso il caseificio Casale di Martignano, viene distribuito soprattutto attraverso i gruppi di acquisto solidale romani e la consegna avviene in bicicletta. E il guadagno? Dipende. Perché il progetto si basa una cassa comune gestita in maniera comunitaria, dove gli introiti sono ripartiti attraverso un sistema di punti che si guadagnano in rapporto ai compiti svolti.
Quella dello yogurt Barikamà rappresenta soltanto una delle tante esperienze che sono state presentate ieri nel corso di una giornata di incontro con i Gas organizzata dalla rete di famiglie La nuova arca. Una realtà nata nella bella campagna romana alle porte della Capitale con l’intento di coniugare gratuità e impresa sociale sostenibile. “Il nostro progetto parte dalla casa famiglia “La tenda di Abramo”, che attualmente ospita 4 mamme con bambini piccoli”, spiega Salvatore Carbone, ideatore e perno dell’esperienza insieme alla moglie Sara. L’idea è nata infatti da 5 coppie di amici, tutte provenienti da percorsi sociali e spirituali, “che sentivano l’esigenza di dare una risposta concreta alle domande del tempo presente”. Poi il progetto si è strutturato, Salvatore ha lasciato il suo lavoro come direttore generale di una multinazionale e ha cominciato a impegnarsi a tempo pieno nella realizzazione di un’iniziativa che oggi, tra le tante attività svolte, si è arricchita di un orto coltivato attraverso la riscoperta dei cicli biologici dell’agricoltura. “Nel tempo abbiamo incrociato l’esperienza di Rosarno e oggi abbiamo preso in affitto 4 ettari di terreno, coltivati da sei persone tra cui due provenienti dalle rivolte calabresi, un richiedente asilo e un tirocinante segnalato dalla comunità educativa del Borgo don Bosco”. Le insalate, gli ortaggi e gli altri prodotti de La nuova arca sono venduti attraverso la rete dei Gas romani, ma attualmente la produzione è in crescita e c’è spazio per stabilire nuovi rapporti da parte dei gruppi di acquisto solidali.
All’incontro di ieri c’era anche Emanuele Feltri, giovane agricoltore siciliano tra i fondatori di Terre forti, un gruppo di 20 produttori che vivono tra la Valle del Simeto ed Augusta. Quando quattro anni fa ha cominciato a fare l’agricoltore cambiando totalmente vita, Emanuele ha scelto una terra bella e difficile come quella di Paternò. Gli avevano appena offerto un lavoro interessante a Padova, nell’ambito del commercio del vintage di cui si occupava, ma una congiuntivite virale lo ha bloccato per un mese in Sicilia, dove era tornato solo per una breve vacanza. “Quel mese di cecità mi ha aperto gli occhi – racconta –. Vendendo un appartamentino che la mia famiglia aveva comprato con tanti sacrifici a Catania, ho acquistato una collinetta di 5 ettari nella Valle del Simeto: una zona bellissima dal punto di vista paesaggistico, ma completamente abbandonata e in balia della mafia rurale”.
Accanto alla presenza di caporalato, infatti, quelle zone negli anni sono diventate anche luoghi di smaltimento di rifiuti: “Abbiamo ricostituito dei presidi, divenendo custodi della terra”, dice Feltri, che non si è lasciato dissuadere neppure dalle tante intimidazioni ricevute. “Non ho mai pagato il pizzo né stretto la mano di nessuno – spiega –. Mi hanno incendiato l’agrumeto e ucciso le pecore, facendomi trovare la testa di agnello appesa davanti alla porta di casa”. Ma lui non si è arreso, confortato anche dalla marcia di solidarietà di 600 persone con cui gli abitanti della zona lo scorso anno hanno reagito alle minacce. Oggi Emanuele e gli altri agricoltori del gruppo Terre forti, coltivano agrumi, olivi, viti e ortaggi non solo attraverso il metodo dell’agricoltura biologica, ma attraverso la promozione della biodiversità e della salvaguardia del territorio e soprattutto attraverso “un processo partecipato che vede il consumatore diventare parte di un processo decisionale condiviso in cui diventa coproduttore e contribuisce a determinare un’economia sostenibile e solidale”. Poi grazie alla vendita diretta e al rapporto con i Gas romani e milanesi lo scorso anno è riuscito a vendere tutte le sue arance a prezzo equo, sfuggendo a quel sistema di intermediari che strozza il produttore a vantaggio dei distributori. E che in Sicilia costringe a vendere le arance anche a 10 centesimi al chilo. Un prezzo che non basta neppure a pagare l’irrigazione. (Antonella Patete)