"Diamo (un po’) i numeri" con il podcast di Psicoradio
BOLOGNA - I numeri possono essere grandi e piccoli, interi o decimali, algebrici, complessi o razionali. Ma soprattutto possono avere significati diversi, possono essere interpretati e si prestano a letture più o meno chiare e ortodosse. I numeri sono ovunque, e da sempre si dice che chi è matto dà i numeri. Allora la redazione di Psicoradio, la radio di Bologna fatta da pazienti psichiatrici, ha deciso di “dare i numeri”, ma solo un po’: la nuova rubrica “Diamo (un po’) i numeri” affronterà, settimana dopo settimana, un numero diverso e proporrà un podcast che ne farà la “smorfia”, per descrivere ciò che un numero può sembrare e ciò che veramente nasconde.
Si tratta di una nuova serie di podcast (la terza) realizzati da Psicoradio per Redattore Sociale: dopo le "finestre di Psicoradio" che hanno raccontato il lockdown nella primavera 2020 e lo "Psico (dizio) radio" che ha descritto alcuni termini usati e abusati della salute mentale, si parte ora dunque con una nuova avventura. Appuntamento ogni sabato sulle pagine di Redattore Sociale.
Numero 5: la “Bibbia” che fa discutere gli psichiatri
Qual è limite tra un comportamento difficile da affrontare, e uno patologico che va curato? Quanto tempo possiamo stare male per un lutto prima di essere diagnosticati come depressi? In America, dal 1952 vengono pubblicate edizioni successive di un manuale che raccoglie sintomi e segni per definire le diagnosi psichiatriche. Non è un libro tra i tanti: è così utilizzato e considerato che è stato definito “la Bibbia degli psichiatri”. Questo manuale, il Dsm (Diagnostic and statistical manual of mental disorder), è arrivato alla sua quinta edizione. E proprio l'edizione numero 5, pubblicata nel 2013 e usata ancora oggi, è stata al centro di molte polemiche. Ecco perché la nuova puntata della rubrica “Diamo (un po’) i numeri” è dedicata proprio al numero 5. In questa quinta edizione, molti comportamenti che prima erano considerati più o meno “normali” sono stati trasformati in diagnosi psichiatriche: questo manuale piace allora a chi “non vuol perdere tempo”, come dice lo psichiatra e psicanalista professore Eugenio Borgna, cioè non vuole dedicare il suo tempo ad entrare in contatto con la persona da curare. E poi c’è il problema dell’ingerenza delle case farmaceutiche: il dottor Angelo Fioritti, direttore del Dipartimento di Salute Mentale di Bologna, cita alcune diagnosi che secondo lui “sono esempi chiari di come il Dsm 5 abbia ceduto a pressioni grandi delle case farmaceutiche”. Un esempio è la diagnosi di “disturbo neurocognitivo lieve”: le piccole amnesie davvero minime e frequenti – come dimenticare i nomi. Questo disturbo, fino al 2013, era considerato come il sintomo del normale declino derivato dall'età. La sua attuale trasformazione in una diagnosi elencata nel manuale potrebbe collegarsi, secondo il dottor Fioritti, “alla vendita di nuovi farmaci che hanno azione presunta di ritardo del declino neurocognitivo”. Per fortuna – e per cultura – la psichiatria europea ed italiana non ha mai sposato la rigidità del Dsm e ha sempre preferito altri manuali diagnostici meno restrittivi. In ogni caso, chiunque abbia esperienza di disagio mentale ha avuto esperienza della diagnosi, delle etichette che cercano di spiegare un disturbo. Gabriele, un tempo redattore di Psicoradio, ha raccontato di avere ricevuto moltissime diagnosi: ha sempre cercato di interpretare il cambiamento delle sue diagnosi come una sua evoluzione, una crescita. Elena ricorda invece la paura provata nel momento in cui le è stata comunicata la prima diagnosi, una paura che non è mai più riuscita a superare. E confessa la difficoltà, per un paziente psichiatrico, di non identificarsi con quella etichetta che gli è stata assegnata: “Spesso, d'istinto, mi veniva da presentarmi a persone nuove come una paziente psichiatrica, o come un'autolesionista. E questo la dice lunga su quanto sia pesante quando la psichiatria vede solo i sintomi di un paziente, e non la persona nella sua interezza”.
Diamo (un po') i numeri
Riascolta tutte le puntate della rubrica di Psicoradio.
Numero 180: il manicomio
La legge 180, approvata il 13 maggio 1978, ha chiuso i manicomi. Ma in Italia esiste ancora una cultura manicomiale? È proprio sul numero 180 che si concentra la prima puntata della nuova rubrica “Diamo (un po’) i numeri”, ideata dalla redazione di Psicoradio, la radio di Bologna fatta da pazienti psichiatrici. I manicomi erano luoghi nei quali si veniva rinchiusi e dai quali era difficile uscire, luoghi che poco avevano a che fare con la cura e molto con il controllo. Luoghi nei quali, come sosteneva Franco Basaglia, motore della legge 180, “nessuna terapia può dare sollievo a persone costrette in situazione di sudditanza e cattività dai medici che devono curarle”. Luoghi di “una desolazione assoluta”, come li descrive chi ha lavorato per la loro chiusura, come lo psichiatra Filippo Renda. Luoghi nei quali esseri umani, rinchiusi fin da bambini, come Italo Cadelano, dovevano lottare per essere riconosciuti come “persone, persone come tante altre”. Ma nonostante quel numero 180, simbolo della chiusura dei manicomi, c'è ancora una cultura manicomiale che continua a esistere: nelle strutture con personale che non guarda ai pazienti, nelle residenze chiuse e con le sbarre alle finestre, nelle cure fatte solo di farmaci e nei rapporti di potere totalmente sbilanciati tra medici e pazienti. “Sono passati 43 anni dalla chiusura dei manicomi. Per realizzare quel che quel numero 180 ci ha ha fatto immaginare, c'è ancora da lottare”, concludono i redattori di Psicoradio.
Numeri 58 - 19 - 60: morire legati
Nel 2021 si può ancora morire perché si è stati legati ad un letto? Purtroppo si. “Mio zio diceva: non portatemi a Vallo perché lì mi ammazzano”, ha raccontato Grazia Serra a Psicoradio, ricordando la morte dello zio Franco Mastrogiovanni, il “maestro buono”, come lo chiamavano gli alunni della scuola elementare in cui insegnava, e che a Vallo di Lucania è morto di sete e fame, legato al letto in un’estate torrida, proprio in quel reparto psichiatrico dove era già stato ricoverato. La Psicoradio negli anni ha sempre sostenuto chi lotta per arrivare alla “contenzione zero”, per vedere la fine della pratica di legare pazienti – non solo psichiatrici: vengono frequentemente legati anche anziani e disabili. Giovanna Del Giudice, psichiatra, era appena stata nominata primario del reparto di salute mentale di Cagliari quando nel 2006 è morto Giuseppe Casu: lei non volle mettere a tacere la vicenda, anzi, scrisse un libro, “E tu slegalo subito”, per promuovere l’abolizione della contenzione meccanica in psichiatria. Esistono, però, anche servizi psichiatrici di diagnosi e cura (Spdc) che non legano le persone: per esempio, quello di San Giovanni in Persiceto, in provincia di Bologna, e altri in alcune Regioni. “Basta un solo servizio che non lega per dimostrare che un altro modo è possibile”, concludono i redattori di Psicoradio.
Numero 32: i folli rei
“Ci tengono chiusi, in una condizione di vita fatiscente: sono entrato qui 28 anni fa, quando ero proprio un ragazzino”, raccontava nel 2015 un internato dell'Ospedale psichiatrico giudiziario (Opg) di Reggio Emilia. Oggi non è più così. Grazie alla legge 81 del 2015, gli Opg, strutture dove venivano recluse le persone internate che avevano commesso un reato quando non erano in grado di intendere e volere, sono stati chiusi e sono nate le Rems: Residenze per l’esecuzione in misura di sicurezza. È proprio sulle Rems che si concentra la nuova puntata della rubrica “Diamo (un po’) i numeri”, che parte dal numero 32: sono infatti 32 le Rems attualmente attive in Italia. Si tratta di strutture molto piccole, con personale solo sanitario: in tutto ospitano circa 550 internati. Gli Opg invece erano sei e ospitavano più di mille internati: la gestione era affidata soprattutto a personale penitenziario. La cura e il reinserimento in società erano quindi difficilissimi e in molti, dimenticati dentro, hanno scontato dei veri e propri ergastoli bianchi. Il superamento degli Opg, di quelle strutture che Ignazio Marino descrive ai microfoni della Psicoradio come veri e propri lager, è stata una vittoria, ma c'è ancora molto lavoro da fare. Michele Miravalle, coordinatore di Antigone, che insieme all'associazione Stop Opg si occupa di un osservatorio sulle nuove strutture, racconta una situazione in divenire, molti miglioramenti rispetto a quando l'unica soluzione per i cosiddetti “folli rei” era l'internamento in Opg, ma raccomanda attenzione, perché il rischio di tornare a piccole strutture manicomiali è sempre attuale.
Numero 91: l'elettroshock
Non tutti sanno che in Italia esiste ancora l’elettroshock, o terapia elettroconvulsivante. Eppure è così. La nuova puntata della rubrica “Diamo un po’ i numeri” si concentra sul numero 91: sono 91 le strutture ospedaliere, sia pubbliche che private, che praticano ancora la terapia elettroconvulsivante. È una terapia che negli anni è molto cambiata e non è più dolorosa come siamo abituati a pensarla, ma continua ad essere uno strumento che divide l’opinione degli psichiatri, e di cui non si conoscono i veri meccanismi di azione. Come sostiene Giovanni De Plato, psichiatra e professore di psichiatria all’Università di Bologna, che nel 1998 è stato a capo della commissione regionale dell’Emilia-Romagna per la scrittura delle linee guida che limitano l’uso dell’elettroshock, “sul piano scientifico non c'è ancora nessuna documentazione sul meccanismo attraverso cui una scarica elettrica potrebbe produrre un effetto di salute, anzi: da quel che sappiamo, non lo produce. L’effetto è soltanto momentaneo, ma il meccanismo che c'è dietro a tutt'oggi non sappiamo qual è”. Al momento, l’elettroshock può essere richiesto solo in alcuni rari casi, come la depressione maggiore, una patologia che può portare a uno stato semivegetativo. Solo con quelle ragioni, e solo “nel caso in cui non c'è alternativa praticabile – afferma De Plato – l'elettroshock può avere una sua giustificazione”. Gli ultimi dati raccolti in maniera sistematica dalla Commissione di inchiesta parlamentare sul servizio sanitario nazionale raccontano che, solo nel triennio 2008/2010, son state più di 1.400 le persone a cui è stata praticata la terapia elettroconvulsivante. Giulia, una donna che molti anni fa ha subito una serie di 12 elettroshock, ne commenta l’efficacia: “Io non ne ho avuto alcun beneficio”.
Numero 52: bambini in cura
Sono aumentati del 52 per cento in meno di dieci anni (dal 2011 al 2019), in Emilia-Romagna, gli accessi di bambini e adolescenti ai servizi di neuropsichiatria dell’infanzia e dell’adolescenza. E allora la nuova puntata di “Diamo (un po’) i numeri”, la rubrica della Psicoradio, si concentra proprio sul numero 52, e parte proprio dalla domanda: cosa sta succedendo a bambini e adolescenti? “I dati della nostra Regione sono in linea con quelli delle altre – sostiene Simona Chiodo, direttrice dell’Unità complessa della psichiatria dell’infanzia e dell’adolescenza dell’Ausl di Bologna –. L’aumento quantitativo è importante, ma bisogna considerare anche quello qualitativo: arrivano casi di maggiore complessità, o più urgenti, storie di traumi migratori di minori stranieri non accompagnati, dipendenze da internet o ragazzi vittime del cosiddetto ‘ritiro sociale’, che non vogliono più uscire da casa ed entrare in relazione con il mondo esterno”. L’aumento dei disturbi nei bambini deriva da un malessere generalizzato della società e, soprattutto, della famiglia, che è notevolmente cambiata. “I genitori sono più informati, ma più soli, senza un contesto allargato che li può sostenere – continua Chiodo –. Sono tanti i fattori di fatica delle nuove famiglie. Gli enormi cambiamenti della società non sono stati accompagnati da un sostegno adeguato del welfare”. Una parte di questo aumento di accessi può comunque essere considerato un buon segnale: il miglioramento della capacità di diagnosi porta a riconoscere anche molto precocemente l’insorgere di un disturbo, quando il paziente è ancora molto giovane. Ma nasce un dubbio: quanti dei casi che arrivano ai servizi sono comportamenti e disagi che in altri anni sarebbero stati etichettati come “ribellioni adolescenziali” e che oggi invece vengono letti come disturbi perché la famiglia e il contesto sociale non sono più in grado di gestirli?
Numero 90: la paura
La paura è un’emozione sempre presente, vissuta personalmente ma anche socialmente, un’emozione che cambia al cambiare delle situazioni sociali nelle quali ci troviamo. È proprio al tema della paura che è dedicata la nuova puntata di “Diamo (un po’) i numeri”: i redattori della Psicoradio raccontano che, in questo momento, stanno emergendo nuove paure legate al Covid-19 e al ritorno alla normalità. Probabilmente non tutti saranno capaci di togliere la mascherina, afferma ad esempio Giancarlo Cerveri, direttore del Dipartimento di Salute Mentale di Lodi, in un'intervista al Corriere della Sera: i freni saranno la paura di ammalarsi, gli stati ansiosi e gli aspetti di ordine relazionale, perché la mascherina garantisce una sorta di anonimato, e perciò ci sentiremo più esposti al giudizio degli altri. E poi c'è un forte aumento di diagnosi di “sindrome della capanna”, ossia il timore di riprendere contatto con il mondo esterno dopo un lungo periodo di isolamento, che blocca la capacità di tornare alla vita quotidiana così come la conoscevamo prima della pandemia. I sintomi tipici vanno dall’ansia all’irritabilità, dall’angoscia alla difficoltà di concentrazione, mancanza di energia e motivazione. Già a settembre dello scorso anno, la Società Italiana di Psichiatria metteva in guardia sull'insorgenza di queste nuove paure. Ma, appunto, le paure sono sempre esistite. In quindici anni di attività, Psicoradio ha raccolto voci e testimonianze diverse: per i giovani intervistati una delle paure più frequenti è quella di non trovare un lavoro soddisfacente e che gli sforzi fatti per studiare non vengano ricompensati. Per un redattore, invece la paura, più grande è rappresentata innanzitutto dal cambiamento: “Faccio fatica a trovare un equilibrio nella paura, tra il buttarmi senza rete e il non buttarmi affatto”, racconta.