25 maggio 2012 ore: 10:58
Giustizia

Gli uomini che odiano le donne ora chiedono aiuto

BOLOGNA – Terapie di gruppo, programmi trattamentali, centri d’ascolto: anche in Italia cominciano a diffondersi esperienze rivolte agli uomini che agiscono violenza sulle donne. E sono sempre di più in Italia coloro che bussano spontaneamente alle p...
BOLOGNA – Terapie di gruppo, programmi trattamentali, centri d’ascolto: anche in Italia cominciano a diffondersi esperienze rivolte agli uomini che agiscono violenza sulle donne. E sono sempre di più in Italia coloro che bussano spontaneamente alle porte dei Centri di ascolto, dove a seguirli sono psicologi e volontari. L’obiettivo è insegnare a gestire l’aggressività, fino all’abbandono dei comportamenti violenti. Il primo centro voluto da un’istituzione pubblica – la regione insieme all’Ausl - è nato a Modena, si chiama Liberiamoci dalla violenza”, ed è partito a dicembre del 2011: sono già 10 gli utenti. A Torino l’associazione “Il Cerchio degli uomini” mette a disposizione terapie di gruppo e il “Telefono uomo”, attivo da tre anni. A Firenze è presente il Cam, Centro uomini maltrattanti, che in 3 anni ha assistito 153 persone, nella stragrande maggioranza dei casi uomini di nazionalità italiana. A Milano, nel carcere di Bollate, ci sono invece i circoli per detenuti ed ex detenuti sex offender – autori di reati sessuali contro donne e minori - che finora hanno seguito 230 persone. 
Quando si parla di violenza, una trappola da evitare è "attribuirla solo a una patologia individuale, alla depressione o all’alcolismo, senza riconoscerne la radice culturale". E un altro errore da individuare è quello in cui si imbattono le campagne informative, "che mostrano donne vittime, con lividi, schiacciate in un angolo, soggetti che hanno bisogno di essere protetti da qualcuno, mentre si parla ancora poco di chi è l’artefice della violenza e del perché avvenga”.

I progetti dei Centri d'ascolto, se portati a termine, si rivelano “più efficaci del carcere, perché abbassano di molto le possibilità di recidiva”. A spiegarlo è Giuditta Creazzo, fra le coordinatrici del progetto europeo Muvi (Men using violence in intimate relashionships, terminato nel 2009) e autrice insieme a Letizia Bianchi del libro “Uomini che maltrattano le donne: che fare?” (Carocci editore, 2009). Il progetto Muvi ha studiato gli interventi già adottati in diversi Paesi europei nei confronti di uomini che agiscono violenza, in particolare dal centro Atv di Oslo, per poi formare operatori specializzati. Accanto a programmi trattamentali già esistenti all’interno di alcune carceri, generalmente rivolti a uomini che hanno commesso violenze sessuali, anche in Italia cominciano a diffondersi progetti “in comunità”.
 
Per la maggior parte si tratta di esperienze che si occupano di autori di maltrattamenti più che di violenza sessuale, di violenza domestica più che di azioni commesse al di fuori di una relazione. Ci sono programmi “ad accesso spontaneo, in cui gli uomini cercano aiuto, spesso spinti dalle compagne”, spiega Creazzo, “ma anche programmi che funzionano come alternative alla detenzione”. Fra le realtà che operano in questo senso c’è il Centro di ascolto uomini maltrattamenti, aperto a Firenze dal 2009 (http://www.centrouominimaltrattanti.org/), il “telefono amico” e i gruppi organizzati dall’associazione “Il cerchio degli uomini” di Torino, lo sportello per uomini violenti aperto dall’Ausl di Modena nel 2011. “Uno degli aspetti più critici di queste esperienze è riuscire a far sì che i partecipanti arrivino alla fine del programma”, continua Creazzo. “La percentuale di abbandono è infatti piuttosto elevata. Nel caso di misure alternative alla detenzione, questo significa un ritorno in carcere, se l’accesso è spontaneo l’abbandono significa spesso perdere ogni contatto con il maltrattante”.
 
Dalle testimonianze raccolte fra gli operatori, nel corso del progetto Muvi, si capisce anche perché l’abbandono è frequente. L’atteggiamento più comune fra gli uomini che usano violenza, spiega Creazzo, “è negare di avere un problema, oppure minimizzarlo. Chi ammette i comportamenti violenti tende a darne la responsabilità alla vittima”. Nelle relazioni dove c’è violenza c’è spesso “gelosia e controllo, e su questo purtroppo c’è ancora un sostegno culturale all’interno della società”. Il primo passo dunque è il riconoscimento del problema, “da qui si parte per far capire che l’uso della violenza è una scelta che si può evitare, anche se spesso dietro ad essa c’è una sofferenza, di cui è importante ci sia una presa in carico; nel momento in cui un uomo riconosce di essere responsabile, pur nella difficoltà di cambiare i propri comportamenti, è anche in grado di prendere parte ad un processo di cambiamento”.
 
Ma l’obiettivo più importante rimane cambiare la cultura della violenza all’interno della società: anche su questo versante l’apertura di centri d’ascolto e sportelli può essere d’aiuto. “Spesso oggi sono le donne a doversi fare carico del controllo dei comportamenti violenti maschili, c’è molta omertà e molta ‘collusione’, raramente si prende posizione di fronte agli aggressori e a tutt’oggi chi usa violenza è un gruppo socialmente invisibile”, spiega Creazzo: “è importante che della violenza si assumano la responsabilità gli uomini che la agiscono, e che dagli uomini “buoni” arrivino messaggi chiari di condanna. Avere un luogo che dice che la violenza maschile contro le donne è inaccettabile e che è responsabilità degli uomini farsene carico, è un messaggio sociale fondamentale”. (ps)