Eritrea, “l’Europa esca dall’ambiguità e metta fine al regime di Afewerki”
“Non possiamo fermare la mafia dei trafficanti, che esisterà finché non ci sono canali protetti di migrazione, e soprattutto non possiamo fermare il mare, che ha inghiottito molti dei nostri amici e famigliari. Una cosa però possiamo farla: unirci per mettere fine a un regime che semina morte, che impoverisce e imprigiona il nostro popolo e costringe migliaia di persone a andarsene”. Siid Negash, giovane video-maker e attivista bolognese, è uno dei referenti del Coordinamento Eritrea Democratica, che a Milano ricorderà la tragedia del 3 ottobre 2013 con Noonechoosestobearefugee, incontro e racconto sulle ragioni della fuga di massa dall’Eritrea.
Eritrei senza voce?
“In questi giorni ci sono iniziative in tutta Italia”, spiega Negash, “ma il rischio è di rimanere in superficie e di non dare voce proprio agli eritrei, fra le prime vittime del Mediterraneo”. Secondo l’attivista occorre invece “andare al cuore del problema, senza nascondere verità scomode dietro soluzioni rassicuranti”. La verità scomoda, per i membri del Coordinamento Eritrea Democratica, va cercata nel regime di Isaias Afewerki, presidente unico del piccolo stato africano dall’indipendenza del 1993 e “responsabile dell’esodo dal nostro paese e dunque dei 360 eritrei (su un totale di 368 persone) affogati a Lampedusa due anni fa”. Le soluzioni rassicuranti sono invece “quelle proposte dall’Unione Europea, come la lotta agli scafisti o il così detto Processo di Khartoum, che sono come cerotti su piaghe che non vengono curate: coprono alla vista mentre la malattia cresce”.
La doppia faccia del regime
Come molti eritrei e italo-eritrei, il 20 ottobre 2013 Negash si è lasciato alle spalle il drammatico crescendo di cifre dei notiziari per muoversi verso la Sicilia. “Il giorno dopo eravamo ad Agrigento per la commemorazione organizzata dal governo italiano, e alla tristezza si è presto unita la rabbia: i rappresentanti del regime di Afewerki, lo stesso da cui i nostri concittadini erano fuggiti, erano infatti lì, di fronte a centinaia di morti e accanto ai leader europei e italiani”. Mentre le immagini delle bare allineate nell’hangar di Lampedusa e i volti asciugati dei superstiti avevano già fatto il giro del mondo, la comunità eritrea era in subbuglio. “La reazione governativa ha avuto come sempre una doppia faccia: nel paese i media di regime, gli unici presenti, hanno sminuito la vicenda, temendo proteste popolari, mentre in Italia l’ambasciatore eritreo diceva che avrebbero fatto rimpatriare le salme, cosa poi mai avvenuta”.
Scappare dalla violenza
Da allora però il 3 ottobre è una data sentita da molti eritrei. “Come in una guerra, abbiamo tutti degli amici o dei parenti morti, violentati o torturati in quello e in altri viaggi”, racconta Negash, “e a chi in Europa sostiene che chi fugge è codardo, perché non cerca di cambiare le cose, vorrei rispondere che è il contrario: scappare significa rifiutare la violenza, rifiutare un servizio militare senza fine che costringe a prendere le armi contro i propri fratelli”. Negash ricorda che in Eritrea vige la politica dello ‘sparare per uccidere’: “alle guardie di frontiera è chiesto di sparare a vista contro chi cerca di lasciare il paese, e nonostante questo fuggono in migliaia ogni mese… non rischierebbero la vita se ci fosse un’alternativa”.
Una nuova liberazione nazionale
L’alternativa, sostiene Negash, va costruita giorno per giorno partendo da chi è andato via e può dunque esprimersi liberamente. “Il Coordinamento Eritrea Democratica - spiega - vuole essere questo, una sorta di Comitato di Liberazione nazionale, che unisce persone di orientamenti politici diversi sotto uno scopo comune: cambiare il regime e avviare una riconciliazione sull’esempio del Sud Africa, facendo incontrare e dialogare le vittime e gli autori dei soprusi”. Un aiuto in questo senso dovrebbe arrivare dall’Unione Europea, primo partner economico dell’Eritrea. “Dopo il 3 ottobre l’UE avrebbe dovuto cambiare rotta e smettere di sostenere il governo eritreo, ma l’occasione è stata sprecata”.
L’ambiguità del “Processo di Khartoum
Oltre agli aiuti per la cooperazione - circa 120 milioni di euro stanziati fra 2009 e il 2013 e altri 200 milioni che potrebbero essere sbloccati entro la fine del 2015 - l’Eritrea è uno dei partner del Processo di Khartoum, l’Iniziativa sulle Rotte migratorie EU-Corno D’Africa. Avviato nel novembre 2014 con una conferenza a Roma, il “processo” intende contenere le migrazioni dall’Africa orientale, combattendo i trafficanti e garantendo al contempo la protezione dei rifugiati. I paesi partner riceveranno decine di milioni di euro per implementarlo.
Secondo Negash però “il passato ha già dimostrato come tutti questi piani non funzionino: più l’Europa finanzia l’Eritrea, più il regime si rafforza e costringe le persone a scappare, e questo non si fermerà”. Se l’UE da una parte riconosce tutti gli eritrei come rifugiati, dall’altra programma insomma di sostenere il regime che li rende tali. “Quei soldi, che poi sono le nostre tasse, potrebbero invece servire per finanziare borse di studio, creare scuole nei campi profughi dei paesi confinanti, dove stanno crescendo nuove generazioni di cittadini senza patria, il cui unico futuro è la fuga”. (Giacomo Zandonini)