2 luglio 2015 ore: 14:09
Immigrazione

Fare impresa per resistere, la strategia anticrisi dei bangladesi

Boom di attività commerciali nella Capitale: dalle frutterie ai piccoli negozi di vestiti fino alle agenzie di import export. Secondo il dossier Idos è il modo che i cittadini del Bangladesh hanno trovato per non perdere il lavoro: “Anche più famiglie si mettono insieme per dare vita a un’attività”
Lavoratori in Bangladesh

Lavoratori in Bangladesh

ROMA – Piccoli negozi al dettaglio, dove si possono comprare alimenti e bevande fino a tardi, frutterie dai prezzi modici e gli orari flessibili, ma anche punti vendita di vestiti e merchandising. A Roma sono sempre di più gli esercizi commerciali gestiti da cittadini del Bangladesh. Secondo la Camera di commercio sono 8210 i bangladesi titolari di imprese individuali sul territorio cittadino, pari a quasi un terzo di tutti gli imprenditori stranieri a Roma(31,7 per cento). Un boom registrato negli ultimi anni che è dovuto anche e soprattutto alla crisi. A sottolinearlo è l’ultimo dossier realizzato dal centro studi e ricerche Idos, dal titolo “Roma-Italia, dimensioni transcontinentali dell’immigrazione”. Secondo l’indagine, la recessione ha inciso pesantemente sul lavoro degli immigrati, ma la loro componente sul territorio romano non è cambiato. Anzi, nel caso dei bangaldesi negli ultimi anni si registra un incremento straordinario (+733 per cento). Questo perché come strategia anticrisi hanno deciso di investire sulla piccola imprenditoria.

“Per le persone che vengono dal Bangladesh Roma è il primo e principale fulcro dell’emigrazione verso l’Italia, nove su dieci infatti si concentrano qui – spiega Maria Paola Nanni, ricercatrice di Idos – La maggior parte sono uomini, ma negli ultimi anni c’è stata una forte spinta ai ricongiungimenti familiari. A livello lavorativo il loro settore rifugio è quello alberghiero, della ristorazione e del commercio. In questo senso possiamo dire che l’ imprenditoria autonoma, è stata più che altro una strategia di resistenza alla crisi. Quelli che hanno perso il  lavoro, si sono uniti ad altri connazionali, e così più famiglie hanno messo piccoli negozi di alimentari o agenzie di import export”. Secondo Nanni a spingere i bangladesi a fare impresa è anche un fattore culturale: “il lavoro subordinato, alle dipendenze di altre persone è considerato, per molti come un lavoro riservato ai ceti più bassi, mentre il lavoro autonomo è per classi sociali più elevate, quindi c’è in loro una grande spinta a realizzarsi  in questo senso. Inoltre il restringimento dell’offerta di lavoro ha fatto sì che in molti si unissero per mettere su un’attività e non perdere così il permesso di soggiorno”.

Diametralmente opposta è la risposta alla crisi messa in campo dai cittadini rumeni, che rappresentano la comunità straniera più presente a Roma (oltre 76mila). “I rumeni resistono nonostante tutto, anche se le condizioni di vita peggiorano – spiega Antonio Ricci, ricercatore Idos - chi rimane resiste. In particolare, nel loro caso è la famiglia a fare da scudo, c’è una forte solidarietà intrafamiliare e parentale. Tante sono le donne che fanno parte di quella fetta di mercato, come la collaborazione domestica, che ha risentito della crisi ma in maniera minore. Mentre gli uomini si sono adattati a fare di tutto, perché sanno che anche nel loro paese troverebbero una situazione lavorativa non florida. Così si adattano anche ai lavori più umili, è la loro strategia di resistenza”. Se le donne romene si occupano prevalentemente di lavoro domestico o di cura, la metà degli uomini è impiegato in edilizia. (ec)

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