Ferite visibili e invisibili: storie di rifugiati in Italia
Lo sbarco del piccolo Diya e della sua famiglia a Fiumicino, grazie al corridoio umanitario dal Libano organizzato da Comunità di Sant’Egidio, Federazione delle Chiese Evangeliche e Tavola Valdese
ROMA - Quando la bomba è esplosa Diya stava giocando con gli amici davanti alla sua casa di Homs, in Siria. Il buio negli occhi, gli attimi di frastuono, la corsa in ospedale e una vita che non sarà mai più come prima. I medici intervengono d’urgenza, salvano la vita del bambino, ma l’amputazione di una gamba si rivela inevitabile. La famiglia decide allora di cercare riparo altrove: la città devastata da anni di guerra è sempre più insicura, le bombe sono arrivate davanti all’uscio di casa, rischiare la vita per i civili è diventato parte del quotidiano. Non solo, la disabilità di Diya si aggiunge ora alla malattia neurodegenerativa del fratello Amro e ai problemi di salute del padre. E così, radunate in fretta le poche cose che permettono di affrontare il viaggio, madre, padre e i tre figli lasciano la Siria per rifugiarsi nel vicino Libano. Trovano accoglienza in un campo profughi, a Tel Abbas, a soli tre chilometri dal confine, dove vivono almeno 600 siriani in fuga come loro. La vita ricomincia lentamente in una tenda attrezzata come casa, la speranza è di tornare un giorno nell’amata Siria. Ma i problemi di salute dei ragazzi rendono la situazione sempre più difficile, così alla famiglia di Diya viene offerta una possibilità difficile da rifiutare: arrivare in Europa, precisamente in Italia, con il primo corridoio umanitario dal Libano, organizzato dalla Comunità di Sant’Egidio, la Federazione delle Chiese Evangeliche (Fdcei) e la Tavola Valdese. Un viaggio legale e sicuro, un ponte aereo per rifugiati in condizione di vulnerabilità, che per la famiglia di Dyia significa la speranza di cure adatte per i due bambini. È il 29 febbraio del 2016 quando i cinque varcano insieme la porta del Terminal 3 dell’aeroporto di Fiumicino. Diya ha lo sguardo incredulo e il sorriso stampato in faccia, mentre avanza con le stampelle accolto da un inchino scherzoso del responsabile di Sant’Egidio, Marco Impagliazzo, e dai flash dei fotografi. Lo aspettano giorni di visite e controlli e una possibile soluzione per la gamba destra. Il Centro protesi Inail di Vigorso di Budrio ha deciso di fornire gratuitamente assistenza e una protesi al bambino.
L’arrivo del piccolo Diya e della sua famiglia a Fiumicino
"Stava giocando davanti casa con i suoi amichetti quando abbiamo sentito l’esplosione. È stato terribile, tutto è avvenuto in un attimo", racconta la mamma Kadija. "Siamo venuti in Italia perché Dyia possa ricevere le cure di cui ha bisogno, ma anche per permettergli di studiare e tornare a giocare normalmente come tutti gli altri bambini". Cinque anni dopo la famiglia è ancora in Italia: vivono a Pomezia, una cittadina a Sud di Roma, in un appartamento dove risiedono tutti insieme. "Sono usciti formalmente dal progetto di accoglienza, perché hanno raggiunto l’autonomia, ma continuiamo a restare in contatto con loro", spiega Federica Brizi, responsabile accoglienza della Fcei. "Il fratello maggiore sta portando avanti la famiglia con il suo lavoro, si è sposato e ha tre figli. Oggi sono tutti ben inseriti. Alcune famiglie le sosteniamo nei Paesi di transito: spesso c’è un beneficio a rimanere, come la rete familiare che può fornire un sostegno. In questi casi è inutile sradicare le persone. Poi ci sono i casi come quello della famiglia di Dyia che hanno necessità di essere portati altrove, non solo per avere un’adeguata assistenza sanitaria, ma anche per riuscire a riprendere in mano la propria vita. La routine nel campo di Tel Abbas, per lui e suo fratello, col tempo sarebbe diventata insostenibile. Oggi, invece, si sono integrati in Italia. Hanno ricevuto tutti l’asilo politico, a Diya è stata riconosciuta l’invalidità e possono godere dell’assistenza sanitaria", aggiunge Brizi. "Nel maggio del 2016, poco dopo l’arrivo, Dyia ha ricevuto la prima protesi, ma gli dava problemi. Così ha avuto una seconda protesi, anche quella però gli arrecava dolore. Il problema è la ferita riportata dopo l’esplosione e l’operazione fatta in Siria, un’amputazione di emergenza, non pensata per sostenere in futuro una protesi". Servirebbe un nuovo intervento chirurgico, ma Dyia, che oggi ha 16 anni, non lo vuole affrontare, preferisce attendere la fine del periodo dello sviluppo fisico. Per ora, dunque, si aiuta ancora con le stampelle, in futuro spera di riuscire a trovare da sé una soluzione. "Voglio diventare un tecnico ortopedico", racconta, "e poi tornare in Siria, quando sarà possibile".
L’accoglienza dei volontari della Fcei
Quello del ragazzo siriano non è un caso isolato. I corridoi umanitari, nati come alternativa sicura ai viaggi via mare o via terra organizzati dai trafficanti di esseri umani, sono anche una delle poche possibilità per le persone disabili di chiedere protezione in un altro Paese. Chi ha una patologia o una menomazione, infatti, ha maggiori difficoltà nell’affrontare un percorso migratorio a bordo di un barcone o a piedi lungo le frontiere d’Europa. Per questo la maggior parte di coloro che giungono nei Paesi europei è sostanzialmente in buona salute, confermando la cosiddetta ipotesi del “migrante sano”, cioè delle buone condizioni di salute in partenza. C’è poi chi si ammala durante il tragitto e chi, invece, nel Paese di destinazione, per le cattive condizioni di accoglienza o di lavoro. "I corridoi umanitari nascono per contrastare le morti in mare, ma anche per aiutare tutte quelle persone che hanno perso ogni speranza di salvezza", sottolinea Daniela Pompei, responsabile del progetto per la Comunità di Sant’Egidio. "Parlo, per esempio, di chi ha problemi medici, sanitari o qualche forma di disabilità. In alcuni Paesi come la Siria incontriamo molti malati rari, tantissimi sono talassemici, perché nel mondo arabo ci si sposa anche tra consanguinei. Questo crea una serie di patologie gravi. Perciò è necessaria una via sicura per permettere alle persone di curarsi e mettersi in salvo". Tra gli ultimi arrivi in Italia in sicurezza c’è quello di Amir Hosseini, un bambino gravemente malato, che viveva con la mamma Reziah sull’isola di Lesbo, nel campo profughi di Moria, diventato negli ultimi anni un vero e proprio limbo per i rifugiati. La storia della sua patologia invalidante, senza ancora una diagnosi chiara, era stata raccontata in un servizio televisivo dal giornalista Rai, Nico Piro. Quelle immagini hanno colpito l’attenzione di un medico dell’ospedale di Udine, che si è detto in grado di curarlo. "Grazie a una triangolazione felice e al supporto anche della Fondazione Lucchetta siamo riusciti a portarlo in Italia, con il nuovo corridoio umanitario intraeuropeo attivo dalla Grecia", conclude Pompei. "Oggi il piccolo è in Italia con la mamma, ha avuto una diagnosi e lo stanno curando". Ma per ogni storia di assistenza riuscita, ce ne sono centinaia di abbandono e solitudine.
I più vulnerabili tra i migranti forzati, i più invisibili tra i malati, i rifugiati con disabilità vivono ancora oggi in una situazione di estrema precarietà. Lo spiega bene il volume edito da Mimesis, “I rifugiati e i richiedenti asilo con disabilità in Italia”, curato da Giampiero Griffo e Lavinia D’Errico. Il libro nasce proprio per colmare il gap di informazioni sul tema, a partire dall’assenza di numeri per determinare la portata del fenomeno. E contiene i risultati del progetto Amid (Accesso ai servizi per migranti con disabilità) finanziato dall’Unione europea: per due anni, infatti, in quattro Paesi comunitari (Austria, Finlandia, Grecia, Italia), ricercatori, operatori nel campo delle migrazioni e associazioni di persone con disabilità hanno raccolto dati e informazioni, sviluppando al tempo stesso strumenti di intervento. "A livello mondiale le difficoltà incontrate dalle persone con disabilità sono notorie: siamo cittadini invisibili", sottolinea Griffo. "Questo vale anche e soprattutto per i rifugiati: i dati relativi a questa popolazione non li hanno neanche le agenzie internazionali, come Oim e Unhcr. Il tema è stato sempre preso scarsamente in considerazione, il progetto Amid è il primo ad affrontare in maniera organica il fenomeno". La mancanza di numeri determina anche l’impossibilità di pensare politiche mirate. "Non c’è una rilevazione statistica completa all’arrivo, gli unici dati che abbiamo sono quelli di secondo livello, cioè quelli raccolti nei centri di accoglienza, in particolare all’interno dei centri ex Sprar, chiamati poi Siproimi e oggi denominati Sai", aggiunge Griffo. Se le disabilità di tipo fisico sono spesso più facilmente individuabili, diverso è il caso delle ferite cosiddette invisibili, legate ai traumi del viaggio, agli abusi nei centri di detenzione in Libia, alle violenze perpetrate dai trafficanti durante tutta la rotta, al distacco forzato dal Paese di origine e dalla famiglia. "La maggior parte delle persone arrivate in Italia ha intrapreso un viaggio pericoloso, ha vissuto choc, violenze e stupri. Nei pochi dati che abbiamo a disposizione c’è una prevalenza di problemi di salute mentale, che non sempre sono stati segnalati all’arrivo, ma che derivano da una valutazione durante l’accoglienza", continua Griffo. A questo si aggiunge il problema dei centri di accoglienza, la maggior parte dei quali non pensati per ricevere persone con bisogni particolari, e dove opera personale non formato. "Dal progetto è emerso con forza che all’interno di tutto il sistema di accoglienza non c’è adeguata formazione sul tema della disabilità. Questo vale sia nel pubblico che nel privato, dove ci sono decine di cooperative che operano nel settore. La formazione è, invece, fondamentale. Nella strategia licenziata dalla Commissione europea è un punto centrale, che vale già per la prima accoglienza. Questo va migliorato, anche in Italia, proprio perché c’è una responsabilità nel non segnalare o individuare le persone che hanno una problematica. Se le patologie non vengono affrontate tempestivamente si rischia la cronicizzazione, le paure diventano ossessioni, i problemi si acuiscono".
Una donna rifugiata appena arrivata a Roma con un’evacuazione d’urgenza dalla Libia. Foto Unhcr/Alessandro Penso
Negli ultimi anni anche diverse organizzazioni umanitarie che si occupano dell’assistenza medica e psicologica a migranti e rifugiati hanno studiato con attenzione la tematica della salute mentale. Medici senza frontiere, in un rapporto dal titolo Traumi ignorati, punta il dito sull’approccio emergenziale su cui si basa il sistema di accoglienza in Italia. E, in particolare sui grandi centri, dove i problemi di natura psicologica e psichiatrica rischiano di essere valutati in maniera errata e scambiati per scontrosità o lieve depressione. Inoltre, i richiedenti asilo vengono ospitati in strutture, che si trovano spesso in zone particolarmente isolate, per lunghi periodi a causa dei tempi legati all’attesa dell’esito della procedura di asilo. Questa condizione genera profondo stress e sofferenza, che si somma al senso di sospensione e alla mancanza di prospettive. Anche secondo uno studio di Medici per i diritti umani (Medu) pubblicato sul “International Journal of Social Psychiatry” le condizioni inadatte dell’accoglienza influiscono negativamente sulla salute mentale di migranti e rifugiati. In particolare, i fattori di stress post-migratori, come per esempio le situazioni di vita precarie in grandi e sovraffollati centri di accoglienza, produrrebbero effetti sulla psiche al pari delle violenze subite nei Paesi di origine o lungo la rotta migratoria.
Aspetti questi che oggi sono ancora troppo sottovalutati. E così l’invisibilità dei rifugiati con problemi fisici o mentali si traduce nell’incapacità di leggere i bisogni di queste persone e nel mancato riconoscimento dei loro diritti, sanciti anche dalla Convenzione Onu del 2006. "La legislazione italiana è molto avanzata", aggiunge ancora Griffo. "La legge 104 tutela anche i non cittadini italiani, inoltre all’interno dei sistemi di protezione dei rifugiati è prevista l’assistenza tramite il Servizio sanitario nazionale, sia per i servizi di base che in emergenza. Nel momento in cui viene riconosciuta la protezione internazionale, poi, si può godere anche del collocamento mirato e della pensione, così come si può usufruire dei vantaggi riservati agli stessi italiani con disabilità". Ma tra i diritti su carta e il loro reale godimento, non c’è sempre corrispondenza. Non tutti i migranti forzati con vulnerabilità vengono riconosciuti rifugiati e l’accesso alle cure può variare da regione a regione. "Negli anni Novanta l’accoglienza era strutturata diversamente e i percorsi erano più mirati. Negli anni Duemila, quando sono cambiati i flussi e la narrazione del tema ha assunto una valenza più politica, tutto è diventato più complesso e la possibilità di essere integrati è molto più difficile. Ci sono delle buone prassi nel Paese ma persistono anche delle difficoltà, che dovranno essere affrontate".
Difficoltà acuite anche dall’attuale emergenza sanitaria legata alla pandemia da covid-19. "Moltissimi, tra richiedenti asilo e rifugiati, si trovano in situazione di vulnerabilità per una disabilità fisica o psichica, anche per tutto quello che hanno affrontato durante il viaggio", sottolinea Chiara Cardoletti, portavoce per l’Italia dell’Alto Commissariato Onu per i rifugiati. "Oggi la situazione è fluida: ci sono risposte diverse sui territori e una difficoltà a livello nazionale legata all’emergenza da coronavirus. È, quindi, necessario identificare queste persone all’arrivo e dare loro risposte adeguate. Ma nel nostro Paese manca ancora un sistema di identificazione omogeneo e organizzato. Il covid-19 ha posto delle sfide al Sistema sanitario nazionale, cosa che incide ancor più sulle persone richiedenti asilo con vulnerabilità. Il nostro motto è “Nessuno sia lasciato indietro” e in questo momento va ricordato. Per questo le persone disabili rifugiate devono essere incluse nel piano vaccinale al pari delle altre persone vulnerabili". Non solo, ma in questo momento per i migranti forzati nel mondo è particolarmente difficile spostarsi e chiedere protezione in altri Paesi, proprio per le restrizioni imposte alle frontiere dalla pandemia. Intanto i programmi di reinsediamento vanno a rilento e alcuni corridoi umanitari sono stati bloccati per mesi. "I problemi legati al covid-19 stanno portando i migranti con vulnerabilità a cercare di arrivare in Europa via mare. Negli ultimi mesi, per esempio, è aumentato il numero delle persone con disabilità che arrivano con i barconi dalla Tunisia, tra loro abbiamo individuato migranti con patologie cliniche, così come persone con cecità o sordità. Non era mai successo prima, pensiamo che sia dovuto all’impatto del covid-19 sull’economia: è l’estrema disperazione e l’assenza di alternative a costringerli a partire".
(L’inchiesta è tratta dal numero di SuperAbile INAIL di maggio, il mensile dell’Inail sui temi della disabilità)