Ospedali e caregiver, "le famiglie vanno aiutate a non spezzarsi"
Mattia con la mamma e il papà
ROMA – “Mattia se ne è andato per una spesi il 24 maggio del 2018. Era ricoverato in terapia intensiva, non ho potuto trascorrere con lui le sue ultime ore. E questo ha aggiunto dolore al dolore”. Mattia era nato il 1 ottobre 2013 con una paralisi cerebrale dovuta a complicazioni nel parto, che ha portato gravi conseguenze, tra cui frequenti crisi epilettiche.
“Il primo anno è stato ricoverato spessissimo e per lunghi periodi – ci racconta la mamma, Sara Bellagamba, che vive a Fiumicino, a pochi chilometri da Roma – Nato al San Camillo, è stato poi trasferito al Bambino Gesù, dove siamo rimasti circa un mese. Poi sono seguite una serie di ospedalizzazioni: col passare del tempo, io e il papà abbiamo capito che tutti questi ricoveri non servivano a nulla, che gli stessi controlli e le stesse terapie potevamo farli noi a casa, assicurando al piccolo una vita migliore, seppur sicuramente breve. Il problema principale di Mattia era l'epilessia farmaco resistente: abbiamo avuto ottimi risultati con la cannabis terapeutica, ma il costo era altissimo, perché all'epoca non era riconosciuta come terapia per l'epilessia dal Servizio sanitario nazionale. In ogni caso, all'interno dell'ospedale spesso non potevano fare più di quello che noi genitori potessimo fare a casa. Così abbiamo ridotto i ricoveri al minimo indispensabile, per assicurare una vita migliore a Mattia ma anche perché la nostra famiglia non si spezzasse e noi non perdessimo l'energia necessaria. Perché un ricovero è una dura prova anche per la famiglia caregiver”, assicura Sara.
La solitudine del genitore caregiver in corsia
“L'altro genitore non può essere sempre presente al di fuori degli orari d'ingresso – spiega –, solo uno può restare sempre col bambino. Io mi sono ritrovata con un bimbo di un mese, che non potevo mai portare fuori dalla stanza e da cui non potevo allontanarmi. Anche scendere per mangiare era un problema. Al Bambino Gesù, mi ha aiutato tanto 'Suor Aldona', che praticamente vive dentro l'ospedale e aiuta molto noi mamme: mi portava spesso la cena tutte le volte che poteva. In alternativa, c'è un servizio per cui puoi prenotare i pasti, ma sono a pagamento. Diventa una spesa, perché i ricoveri sono spesso lunghi, per i bambini con disabilità. Io ho lottato per riportare a casa Mattia: ho firmato le dimissioni il 21 novembre, dopo un mese e mezzo. Ma molti bambini con gravi disabilità, quando nascono restano in ospedale anche più di sei mesi. Con le mamme sempre accanto a loro. L'ho portato a casa con il sondino al naso, perché ho capito che più di tanto lì non potevano fare: la lesione c'era, l'epilessia anche”.
“Ora l'Inps presenterà il conto”
I ricoveri però sono continuati, tutte le volte che si rendevano necessari per affrontare una crisi: “Nel 2017 siamo stati in ospedale, al Policlinico Umberto I, da gennaio ad aprile – ci racconta Sara – Mattia aveva avuto un crollo generale di diversi organi, che aveva compromesso soprattutto il fegato: è stato per tre mesi in terapia intensiva, ci era permesso di vederlo solo in alcuni orari. Ma non potevamo (e non volevamo) allontanarci mai da lì, avrebbero potuto chiamarci da un momento all'altro per chiederci una firma, o per un'emergenza. Ci pagavamo il pranzo, la cena e la colazione, dormivamo sulla panchina in corridoio, a volte andavamo a comprare farmaci o pannolini per Mattia, che a volte mancavano. Insomma, siamo stati lì per tre mesi consecutivi e ora ci arriverà la lettera, in cui l'Inps ci chiederà chissà quanti soldi. Sarà anche difficile farsi rilasciare dal reparto una dichiarazione che attesti la nostra presenza lì, ma cercheremo in tutti i modi di fare ricorso”.
Per una terapia intensiva “aperta” alle famiglie
Il ricovero più brutto è stato l'ultimo, quello del 2018: “Ad aprile Mattia ha avuto un'altra grave crisi, è stato ricoverato al Bambino Gesù in rianimazione, Area rossa. Potevamo entrare solo in determinati orari: ha contratto un'infezione e se ne è andato per una sepsi, il 24 maggio. E' stato tutto tanto difficile, nonostante il supporto che, in quel caso, abbiamo ricevuto in ospedale: assistenza psicologica e anche religiosa e un pasto al giorno alla mensa. Il rimpianto è però di non essere potuti rimanere accanto a lui tutto il tempo, nelle sue ultime ore”.
Ed è proprio questa una delle necessità dei genitori caregiver in ospedali: “una terapia intensiva aperta, in cui possiamo stare con il nostro bambino tutto il tempo che vogliamo. E poi – continua Sara – servirebbe un supporto al nucleo familiare, che va salvaguardato perché rischia di spezzarsi, sopratutto quando i ricoveri sono tanti e di lunga durata: la mamma e il papà devono avere la possibilità di stare insieme, di esserci tutti e due, accanto al loro bambino, magari potendo contare su uno spazio comune per socializzare con altri genitori che vivono nella stessa condizione”. Infine, un altro problema, non certo irrilevante: “Gli spazi devono essere accessibili anche a chi ha una grave disabilità: così non è – assicura Sara – Sono solo poche le stanze e i reparti dotati di supporti che permettano al bambino con disabilità di muoversi con un minimo di autonomia, per esempio di raggiungere il bagno, come avviene in qualche stanza del reparto di Neurologia al Gemelli di Roma, grazie ad alcuni accorgimenti domotici. Altrimenti è l'infermiere, quasi sempre supportato dal caregiver, a dover provvedere anche a questi piccoli spostamenti”.
Oggi Sara e il suo compagno Marco hanno un'altra bambina: “E' nata a gennaio 2018, sana, Purtroppo ha conosciuto il suo fratellino solo per pochi mesi, ma sono sicura che, grazie a lui e alla forza che ha dato, oggi siamo genitori migliori, ben allenati alla fatica, alle battaglie, alla speranza”. (cl)